di Luciano Assin
Il giorno dopo la dichiarazione di Trump ero a Gerusalemme, nella città vecchia. Ho visitato la spianata delle moschee, girato per i vicoli dei quattro quartieri, entrato e uscito dalla Porta di Damasco e quella dei Leoni, le più pericolose in occasioni del genere. Ho trovato la solita atmosfera schizofrenica che si respira in casi del genere. Negozi e ristoranti chiusi in tutti i quartieri escluso quello ebraico. Ma non c’erano tracce di violenza, né di rabbia incontenibile, quella per il momento gira nel mondo virtuale del web. Un mondo che può trasformarsi in reale molto velocemente.
A parte Netanyahu e i vari ministri del governo israeliano che cercano di tirare più acqua possibile al loro mulino, l’israeliano medio è più preoccupato dei numerosissimi casi di corruzione in cui sono implicati sia Bibi che molti dei suoi collaboratori più fidati. Ogni sabato sera si svolgono decine di manifestazioni nelle più disparate città del paese per indurre il capo della procura a passare dalla fase investigativa alla presentazione dei vari capi d’accusa.
Le reazioni, ipocrite e flebili
Quello che indigna quasi tutti è l’ipocrisia di tutti i paesi che hanno dei rapporti diplomatici con lo stato ebraico. Non c’è capo di stato straniero che durante una visita ufficiale non effettui i suoi colloqui a Gerusalemme, le credenziali dei vari ambasciatori vengono presentate al presidente della repubblica israeliana la cui residenza è a Gerusalemme. Se la città è la capitale del paese “de facto”, perché è così difficile accettarla “de iure”?
Se la questione è un fatto di tempismo, allora a quanto pare il tempismo è ancora molto lontano a venire. In ogni caso tutti sono consci che il regalo di Trump avrà un prezzo da pagare, un detto molto popolare recita che “non esistono pasti gratis” e tutti si domandano quali saranno i prossimi passi di Donald l’imprevedibile. Analizzandolo fino in fondo il discorso di Trump è stato molto vago, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele è stato votato dal congresso USA più di vent’anni fa, e Trump non ha stabilito ancora nessun confine della città Santa, ancora non è stato scelto nessun terreno dove costruire l’edificio, e gli esperti americani in materia hanno già messo le mani avanti spiegando che ci vorranno almeno quattro anni per mettere in piedi una struttura così complessa come un’ambasciata americana. Ci sono molte possibilità che la patata bollente lanciata da Trump finisca nelle mani del prossimo presidente.
Anche le dichiarazioni del mondo arabo si sono rivelate molto più flebili del previsto, nessun paese non ha ancora rotto i suoi rapporti diplomatici o richiamato i propri ambasciatori per eventuali consultazioni. Non è in programma nessun embargo nei confronti dei prodotti americani nonostante che la dichiarazione del presidente USA fosse già chiara da diversi giorni.
I palestinesi si aspettavano una reazione molto più drastica, tipo le dichiarazioni di Arduan, ma a quanto pare il mondo arabo ha dei problemi molto più seri a cui pensare e Abu Mazen dovrà cercare da solo una soluzione politica adeguata.
Uno status da cambiare
Dichiarazioni di Trump a parte, lo status di Gerusalemme è destinato inevitabilmente a cambiare, in una città di quasi 900mila abitanti circa 350mila sono arabi, la maggior parte dei quali abitanti tutta una serie di sobborghi dove nessun ebreo israeliano è bene accetto. Anche qui esiste una divisione de facto della città con cui prima o poi bisognerà fare i conti.
Il 9 dicembre di trent’anni fa scoppiava la prima Intifada, un avvenimento che nessuno fu in grado di prevedere e che cambiò in modo radicale il panorama geopolitico del Medio Oriente. Per il momento gli scontri di oggi si sono risolti in una maniera meno cruenta di quanto si potesse prevedere, ma come allora l’orizzonte è ancora lontano ed è difficile sapere quali saranno le strade da percorrere. Ora come allora sarà la base a decidere la quantità e la qualità delle proteste, compresa la possibilità di rispolverare la soluzione di un’altra serie di sanguinosi attentati.
Nel frattempo domani mi aspetta un altro tour in città vecchia, e domani, si sa, è un altro giorno.