di Carlotta Jarach
Martin Monti. Da Milano a Los Angeles, per studiare come opera la mente: da anni il neuroscienziato lavora sui diversi stati vegetativi per capire se c’è o meno coscienza. Come quando, chiamato al capezzale di Ariel Sharon, nel 2006, vide che anche nel coma lo statista era, seppur minimamente, reattivo
Dalla University of California Los Angeles (UCLA) a un caffè a Milano, per parlare di neuroscienze: incontriamo Martin Monti, professore associato presso il Dipartimento di Psicologia e Neurochirurgia della prestigiosa università statunitense, attualmente in Europa per una serie di conferenze e convegni specialistici.
Milanese, Laurea in Bocconi, ma poi è partito per studiare il cervello e ora è professore in America. Come è successo?
È vero, sono un economista di professione, come è altrettanto vero che ho sempre saputo di voler fare il professore, ma mi ci è voluto tempo per capire in cosa. Mi sono iscritto a economia perché mi interessava sapere cosa muove le persone a fare determinate scelte. L’economia utilizza dei modelli matematici per spiegare tutto questo. Un giorno ho pensato: “ma io non funziono come queste equazioni!” e da lì ho iniziato a interessarmi a come operano la mente e il cervello. Ciò che mi affascina è capire cosa sia la coscienza delle persone, come agisca. Il tutto con occhio clinico: come mai alcune persone perdono la coscienza, magari dopo un incidente stradale in cui battono la testa e, con il tempo, la riguadagnano, mentre altre no? E cosa fa sì che alcuni rimangano per il resto della loro vita biologica in uno stato vegetativo e altri in stato di minima coscienza?
Qual è la differenza tra questi due stati?
In uno stato vegetativo il paziente ha gli occhi aperti, dà l’impressione di svegliarsi e addormentarsi come ci svegliamo e addormentiamo tutti noi, ma il tutto è automatico, un riflesso. Il cervello è acceso, è sveglio, ma non cosciente: alcune di queste persone restano in questa condizione per sempre, mentre altre fanno un piccolo passo in più ed entrano in quello che si chiama “stato di minima coscienza”. Il cervello si sveglia e addormenta come nei pazienti in stato vegetativo, ma chi ha minima coscienza può dare piccoli segni e dimostrare così di essere presente. Si può chiedere loro di battere le ciglia, per esempio, di muovere un arto, aprire la bocca, e loro riescono a farlo a comando. E così, magari a intermittenza, possono far vedere di essere coscienti. Io mi occupo di studiare cosa distingue questi due stati.
Dai numeri ai pazienti, quindi…
Sì, la maggior parte della mia ricerca è a stretto contatto con i pazienti: di solito li vedo nel primo mese e mezzo da quando hanno avuto un incidente, e poi li rivisito in genere sei mesi dopo. Ogni tanto alcuni anche anni dopo, quando sono cronici, in stato vegetativo da diversi anni, contattato da chi ha letto di me magari in articoli o mi ha ascoltato in conferenze.
Perché amo fare divulgazione? Io non mi occupo delle scelte sociali che vengono fatte su questi pazienti, ma trovo che sia molto importante per me parlare delle mie ricerche in eventi pubblici e spiegare questi argomenti affascinanti e complessi. Di contro, ho piacere anche a ritrovare i miei colleghi, qui a Milano, e in Israele, dove sarò settimana prossima (a fine aprile, ndr) in occasione dell’apertura presso la Tel Aviv University del Center for Mind and Language.
Era già stato in Israele? In quale occasione?
Anni fa, mi chiamarono al capezzale dell’ex premier Ariel Sharon, colpito da una emorragia cerebrale nel 2006 e ricoverato in coma da allora in un centro specializzato. Era un caso difficile, non chiaro: andai a fare alcuni test di risonanza magnetica che ho inventato e si vedeva attività, ma non era molto forte, quindi non si capiva se fosse vera o meno, ma l’abbiamo vista più volte quindi era sospetto. E anche fuori dalla camera della risonanza magnetica ha fatto movimenti con gli occhi che sembravano qualcosa di più che semplici riflessi. Sembrava avere un pochino di coscienza: quanta, non lo sapremo mai.
Quali test di risonanza ha inventato?
L’idea dietro alla tecnica è questa: tu sai che sei cosciente. Ti senti, ti percepisci, ma non puoi avere la percezione dell’altro, non puoi sapere che io, a mia volta, mi sento. Arrivati però a questo punto della nostra conversazione penserai certamente che io sia cosciente. Perché? Cosa ti convince? Semplice: mi relaziono con te in modi che non sembrano automatici, non sembrano un input-output. Se vai dal dottore, lui con il martelletto ti colpisce il tendine sotto il ginocchio e la gamba si alza, è automatico. Invece i miei comportamenti non ti sembrano automatici, da cui deduci ci debba essere una testa pensante dietro. Nella clinica è uguale: siccome non abbiamo uno strumento che possa dire, attraverso dei valori definiti, se c’è o non c’è coscienza, come un termometro con la febbre, “punzecchiamo” il paziente finché non ci rivela che c’è, attraverso la richiesta di compiti complessi.
Ovvero?
Immagina questo scenario: un paziente è completamente cosciente, ma è paralizzato. Per te questa persona sembrerà incosciente, pur non essendolo. Noi ci siamo inventati perciò uno stratagemma: il paziente può non muovere il corpo, ma può pensare a qualcosa, e a comando, che in fondo è come se rispondesse alla nostra richiesta di battere le ciglia o muovere la bocca. Utilizzavo il gioco di chiedere alle persone di pensare di giocare a tennis: questo perché questo esercizio, oltre che essere facile, attiva le parti di pianificazione motoria del cervello, nel mezzo della corteccia frontale. Così abbiamo usato questo escamotage: se una persona non riesce a rivelare in maniera fisica di essere cosciente, può farlo “muovendo” il cervello. Addirittura se fai pensare loro due cose diverse (tennis e, per esempio, camminare per le stanze di casa) si attiva un’altra parte del cervello: io posso così associare a una o all’altra azione un codice, e chiederti di pensare al tennis per rispondere “sì” e a pensare di passeggiare per casa per rispondere “no”.
Su un editoriale del New England Journal of Medicine è stato dato, a questa mia tecnica, un nome che trovo molto evocativo: “Cogito Ergo Sum by MRI”. Purtroppo non era un metodo molto pratico, perché bisognava fare una risonanza magnetica , e diventava costoso e difficile. Poi qualcuno ha pensato di farlo con l’encefalogramma: il test è diventato così più facile. E noi ci siamo spostati su altro.
Per concludere, quali sono i suoi progetti attuali?
Essenzialmente uno studio sulle differenze tra il cervello cosciente e quello non cosciente, e su cosa possiamo fare per aiutare i pazienti a farli interagire, con famigliari e amici. Ora stiamo lavorando sugli ultrasuoni focalizzati a bassa intensità (LIFUP). Abbiamo notato che una delle differenze tra stato di coscienza e stato vegetativo ha a che fare con il talamo e la corteccia. Essi non sono più in corretta interazione tra loro: con gli ultrasuoni focalizzati cerchiamo di stimolare il talamo a funzionare di nuovo e a coinvolgere i circuiti.
I dati preliminari sono molto interessanti. Devo però ammettere che ad ora abbiamo analizzato solo pazienti “in acuto” (subito dopo il trauma, ndr) che, il più delle volte, recuperano autonomamente l’attività: quindi è possibile che la nostra rilevazione sia solo una coincidenza. I numeri, e gli esperimenti su pazienti cronici, ci diranno se siamo nel giusto. Un giorno magari avremo una soluzione che aiuterà tutti a recuperare lo stato di coscienza. Perché sono convinto che lo scopo della scienza sia non solo capire, ma anche aiutare.