di Claudia Hassan*
Lo psicologo racconta. Il caso del mese.
L’infanzia lascia il posto all’adolescenza e i genitori non riconoscono più i propri figli. Come tornare a parlarsi? Come comunicare, ritrovare l’amore e il dialogo?
Erano le 3 del mattino, Noa e David, due genitori, si affacciavano nervosamente a turno fuori dalla finestra e litigavano.
“Se non gliele avessi date tutte vinte quando era piccolo adesso non ci troveremmo in questa situazione” diceva lui, “Facile criticare, tu non sei mai stato a casa! Se solo mi avessi aiutata…” ribatteva lei. Era da un paio d’anni che la sera si ripeteva lo stesso copione ed erano stanchi, arrabbiati ma, soprattutto, preoccupati. Fino a che ora avrebbero dovuto aspettare questa volta?
Era la vigilia di Shavuoth. Le avevano provate tutte e non sapevano più dove sbattere la testa. Dove era finito il loro piccolo Benjamin timido e silenzioso che correva a nascondersi dietro alla gonna della mamma? E chi era quel ragazzo scontroso e aggressivo che pensava solo ai videogiochi alla musica assordante e ad uscire con gli amici? Quando rincasava, poi, era davvero irriconoscibile. Chissà cosa beveva e chissà cosa fumava?
Erano le tre del mattino, Benjamin stava aspettando che l’effetto del fumo passasse un po’, non era lontano da casa ma non poteva certamente tornare in quelle condizioni. Già immaginava gli insulti del papà e tutto quel parlare del meraviglioso figlio che avevano pensato di avere e di quanto fosse deludente avere a che fare con lui. Era convinto che se anche fosse tornato perfettamente sobrio, i suoi genitori gli avrebbero dato comunque il tormento per un qualche motivo.
Almeno, quando fumava con gli amici, smetteva di sentirsi una nullità. Faceva ridere tutti, anche le ragazze. Per qualche ora riusciva a sentirsi una persona migliore.
Noa e David sono genitori che soffrono per l’impossibilità di capire il figlio. Sono preoccupatissimi e quando pensano al futuro riescono unicamente a immaginare scenari catastrofici. Ogni sera in cui il sedicenne esce con gli amici è un supplizio. Hanno provato a punirlo togliendogli la possibilità di uscire la sera, hanno sequestrato i videogiochi e il telefono. Ma a nulla è servito se non a peggiorare il rapporto tra loro e aumentarne l’incomunicabilità.
Benjamin, dal canto suo, è un ragazzo sensibile al giudizio altrui. Probabilmente non conosce le proprie risorse, gli vengono rispecchiati unicamente i numerosi aspetti che deludono le aspettative, ma raramente gli viene indicata un’alternativa soddisfacente che tenga in giusta considerazione le proprie necessità, che spesso appaiono agli alti superficiali e inconcludenti. Ha bisogno di farsi accettare dal gruppo dei pari e di trovare la propria identità nel mondo adulto. Sembra anche lui molto sofferente, tanto che gli unici momenti in cui riesce a tollerare la situazione sono quelli trascorsi sotto l’effetto di sostanze di cui fa uso massiccio e allarmante da un punto di vista clinico.
È ipotizzabile che questo scenario continui negli anni e che il conflitto si inasprisca sempre più, in un circolo vizioso che porta tutti membri della famiglia ad agire secondo prevedibili schemi di continua disattesa dei reciproci bisogni, in cui il rancore e la diffidenza aumentano e gli spazi per una comunicazione sincera e produttiva diminuiscono.
Ma come si può uscire da questa situazione che assomiglia più a una condanna che a una libera scelta?
Ovviamente ogni famiglia è un caso a sé e ogni storia di abuso di sostanze è una storia nuova, ma alcuni comportamenti possono essere presi in considerazione da chi si imbatte nel problema dell’uso di droghe.
1) Il fumo giovanile è un comportamento egosintonico, significa che chi ne fa uso non lo vive come un problema. Uno sporadico uso viene spesso percepito come ovvio e naturale. È pertanto difficile che un ragazzo chieda aiuto spontaneamente su questa tematica, ma è meno infrequente che si rivolga a un professionista per le difficoltà di giovane adulto. Se si è intenzionati a suggerire al proprio figlio di parlare con un professionista (ad esempio rivolgendosi allo sportello scolastico), è opportuno rintracciare quegli aspetti che lui stesso vive come limitanti e problematici e per i quali ricorrere all’uso di cannabis potrebbe essere un tentativo di autoterapia.
2) Come in molti ormai sanno, la cannabis crea dipendenza in chi ne fa uso, ma alcune persone sono più soggette agli effetti di dipendenza, i quali avranno tanto più terreno fertile, quanto più la vita affettiva del ragazzo sarà vuota e la sua autostima debole. È importante cercare le sue qualità, rintracciando le cose positive che fa (ad esempio Benjamin potrebbe essere un fratello premuroso o un ragazzo sensibile all’altrui sofferenza). Mai deriderlo o umiliarlo, ma valorizzare questi aspetti. Per quanto possa essere frustrante avere a che fare con un ragazzo di questa età, non bisogna smettere di ritagliare qualche momento da passare insieme coinvolgendolo nel programmare attività che possano interessarlo, insegnandogli ad arricchire la propria vita seguendo quelle che sono le sue inclinazioni. Se non vedete nulla di buono in ciò che fa, cercate meglio perché sicuramente non avete guardato abbastanza.
3) Come per David e Noa, spesso accade che i genitori si rimpallino la colpa dei comportamenti del figlio, ma questa logica è controproducente. I genitori sono responsabili dei figli, ma spesso senso di colpa e responsabilità vengono confusi e mentre il primo paralizza e porta ad alzare le proprie difese, la seconda spinge all’azione e al sentirsi in dovere di provare per primi a fare la differenza senza disinvestire dalla relazione.
4) Aspettare che sia il proprio figlio a modificare il proprio comportamento può non essere l’approccio migliore. L’adulto può fare il primo passo cercando di introdurre delle differenze per interrompere il circolo vizioso. Vivere difficoltà familiari protratte nel tempo può essere molto faticoso e generare sofferenza e crisi nella coppia genitoriale e a livello personale. Per questo motivo risulta importante chiedere un aiuto qualificato, non tanto per provare a cambiare il proprio figlio, ma per provare a inserire una differenza che potrebbe contribuire a interrompere la spirale negativa. Lo scopo della terapia infatti è quello di aumentare i gradi di libertà di azione, che si traduce nell’ampliare le possibilità di risposta dei membri della famiglia, della coppia e del singolo al fine di promuoverne il benessere.
Erano le 4 del mattino, Benjamin non cercava neppure di fare piano perché tanto sapeva che i suoi genitori erano pronti ad aspettarlo per la prossima lavata di testa. Ad attenderlo, invece, solo un biglietto. «Caro Ben, già che sei sveglio prepara i panini per domani. Andiamo tutti al mare. Con affetto, Mamma e Papà».
* Ex scuola della comunità ebraica, psicologa clinica laureata con lode al San Raffaele di Milano, psicoterapeuta individuale, famigliare e di coppia, lavora in studio e consultori pubblici. Da questo numero terrà una rubrica periodica incentrata su nodi famigliari, di coppia e individuali in ottica ebraica.