di Nathan Greppi
Quando la storia ungherese viene narrata al cinema, solitamente ci si concentra sulla guerra o sul periodo comunista degli anni ‘50; ad oggi nessuno aveva mai fatto un film su ciò che è successo nel periodo di mezzo. A infrangere questo tabù è 1945, ultimo film del regista ungherese Ferenc Torok presentato al Cinema Beltrade giovedì 3 maggio.
Il film, ancora al Beltrade, viene proiettato anche all’Anteo in via Milazzo e al Mexico.
La storia è ambientata in un piccolo villaggio di campagna ungherese, durante l’agosto del 1945; la guerra è finita da poco, e il paese è occupato dalle truppe sovietiche. Tutti stanno festeggiando per l’imminente matrimonio tra Árpád (Bence Tasnádi), figlio del notaio István (Péter Rudolf) e la giovane Kisrózsi (Dóra Sztarenki). Tuttavia, questa felicità crolla rapidamente quando si sparge la notizia che stanno arrivando due ebrei ortodossi nel villaggio. Ciò riporterà alla luce fatti orribili avvenuti durante la guerra, e costringerà molti dei paesani a fare i conti con la propria coscienza.
Un fattore che emerge subito nella trama, basata sul racconto Homecoming di Gábor T. Szántó (anche co-sceneggiatore del film) è il tempo: tutto si svolge nell’arco di una giornata, nella quale tuttavia avviene un graduale capovolgimento da una situazione apparentemente tranquilla al caos totale. Infatti, se da un lato i paesani stanno cercando di riprendersi dalle ferite della guerra, dall’altro essi cercano a tutti i costi di nascondere i crimini di cui loro stessi si sono macchiati ai danni degli ebrei che un tempo vivevano lì con loro. Dei due che stanno arrivando sanno poco o niente, ma il loro arrivo basta a generare un forte stato d’ansia, alla quale seguono reazioni contrastanti: c’è chi viene perseguitato dai sensi di colpa, chi per opportunismo vuole insabbiare tutto, e chi per sentirsi in pace vorrebbe lasciare il villaggio.
Torok dimostra un grande talento come regista in questo film girato interamente in bianco e nero, dove attraverso un buon uso della fotografia e della musica riesce a trasmettere allo spettatore l’inquietudine provata dai personaggi. Anche per questo egli ha già ricevuto numerosi premi ai Festival di Berlino, Gerusalemme e tanti altri. Si spera che anche nel nostro paese Torok possa ricevere la giusta attenzione.
L’intervista
Il regista Ferenc Torok, presente a Milano giovedì, ha concesso un’intervista al Bollettino Bet-Magazine sul lavoro che ha preceduto il film, durato 10 anni.
Quali film l’hanno ispirata in questo periodo?
Sin dall’inizio volevo girare il film in bianco e nero, quindi nell’arco di questi 10 anni ciò che è cambiato è che sono riuscito a convincere i produttori di questa mia volontà. Infatti erano i film contemporanei ad influenzarmi, e anche se all’inizio mi ispiravo molto alle opere di Bergman, erano importanti Il Nastro Bianco di Haneke e poi Ida di Pawlikowksy, che mi hanno confermato che lavorare su un’opera in bianco e nero è la strada giusta.
Negli ultimi anni sono usciti altri film, soprattutto nell’Est Europa, come Il Figlio di Saul in Ungheria che trattano la Shoah. Come viene vista oggi nel suo paese? Ci sono state differenze tra come il film è stato recepito in Ungheria e all’estero, soprattutto nei vari festival?
Prima di tutto in Ungheria il film è stato accolto molto bene, ha avuto più di 40.000 spettatori, hanno ottenuto veramente un ottimo riscontro, e comunque il film ha scaturito un grande confronto nella società ungherese, proprio per il suo contenuto. Era sicuramente importante che il film fosse presentato alla Berlinale, il che naturalmente ha fatto partire una carriera molto vistosa, ed era sicuramente fondamentale il premio che vinse a Gerusalemme. Proprio per questo la critica lo ha seguito con attenzione, e ha avuto un’ottima critica internazionale. In Ungheria era sicuramente fondamentale il Premio Nobel a Imre Kertesz, che era appunto un sopravvissuto della Shoah. Infatti con il suo premio, intorno all’anno 2000, c’era stato un confronto tra la società ungherese e i fatti storici dell’Olocausto. Quello ha liberato la società ungherese da tanti tabù storici, una generazione che ha avuto una nuova ottica su avvenimenti storici.
Per quanto riguarda Il Figlio di Saul, dato che a livello di tema si svolge un anno prima rispetto alla mia storia del 1945, fondamentalmente si incrociano i due film, e creano un’unità storico-culturale importante per gli spettatori. I due film, che nascono in modo assolutamente autonomo da autori liberi, che non lavorano su ordinazione o per una propaganda ben precisa, creano un’unità indipendente che si ricollega con l’opera di Imre Kertesz, per liberare la Shoah da tabù e restrizioni e dare un punto di vista fresco.
Il racconto di Gabor si ispira a una storia vera?
Non è basato su “una” storia vera, però ci sono tante storie che in qualche modo si possono collegare agli eventi che comunque sono finzione nella novella. C’è da dire che comunque tutte queste storie, in qualche maniera, si collegano e creano un’unità equilibrata, per cui è una “non finzione” alla fine. C’è da dire che in Ungheria le gravissime storie di questa famiglie trucidate nei campi di sterminio erano più rilevanti nel ’47-’48, e va sottolineato che gli ebrei nelle campagne purtroppo sono sopravvissuti in meno, era più facile sopravvivere per quelli delle grandi città, avevano più possibilità di nascondersi.
Quali sono i suoi progetti futuri? Farà altri film sullo stesso argomento?
Dopo aver concluso un film, poi ci sono vari progetti per la testa. Ho iniziato a lavorare su un film documentario dedicato a Janosz Kadar, una figura dell’era comunista, e sono a metà, ma ho già tanti progetti per la testa. Adesso tutto dipende da quanti appoggi economici riesco a ottenere dalla fondazione in Ungheria, un altro è un libro dedicato a uno sportivo che ha avuto una vita avventurosa. Ci sono tante vie aperte davanti a me, per prima cosa vorrei concludere il film documentario.
Il film sarà proiettato al Cinema Beltrade fino a lunedì 7 maggio. Per maggior informazioni consultare il sito http://bandhi.it/bah/beltrade/production/1945/.