di Fiona Diwan
I 70 anni dello Stato d’Israele e le varie anime dell’ebraismo italiano. Il senso di appartenenza, le spinte centrifughe, i nuovi bisogni allo specchio dell’identità. Come salvare tutte le dimensioni della contemporaneità ebraica? «Con una Comunità plurale ma unitaria. L’importante è evitare i ping pong ideologici e non ragionare per etichette». Parla Rav Roberto Della Rocca
Lo stato di salute dell’ebraismo italiano e i 70 anni dello Stato d’Israele. Le varie anime del mondo ebraico e le spinte centrifughe che sembrano oggi attraversare le nostre Comunità. Il senso di appartenenza e le possibili risposte ai bisogni di una Kehillà strattonata tra identità, seduzioni assimilazioniste e il desiderio di salvare tutte le dimensioni ebraiche, nel difficile equilibrio tra il dentro e il fuori. All’indomani del Moked di Milano Marittima, ce ne parla Rav Roberto Della Rocca, autore di numerosi saggi, docente, membro del comitato scientifico del CDEC e del MEIS, direttore del Progetto Kesher della CEM, direttore del DEC ovvero l’area Cultura e Formazione dell’UCEI.
Come è andato il Moked quest’anno?
Direi molto bene, sia per la qualità degli interventi e relatori, sia per il livello culturale degli ospiti. Un appuntamento che rappresenta una sfida per gli ebrei d’Italia, un’occasione per uscire dalla propria comfort zone e dal proprio gruppo di appartenenza, per incontrare altre comunità e altri modi di vivere l’esperienza ebraica. Creare un senso di unità tra le varie anime dell’ebraismo italiano, cercare di costruire un senso collettivo di Comunità è un lavoro delicato, non facile. A questo serve il Moked. A maggior ragione oggi, in un momento in cui stanno proliferando progetti centrifughi rispetto al modello comunitario istituzionale e centralistico. Queste spinte centrifughe inducono a riflettere su due cose: la prima è che forse sia venuto il tempo di pensare a un nuovo modello di Comunità, poiché quello in essere oggi sembra apparire obsoleto. Secondariamente, si impone una domanda: i gruppi che oggi cercano la tanto invocata apertura e “accoglienza” non rischiano invece di cadere nel più vieto “gruppismo”, ossia il rinchiudersi tra i propri simili e nei propri confortevoli cenacoli? Col rischio di non saper gestire una capacità di dialogo e di confronto con chi invece non la pensa allo stesso modo e finendo per risultare, alla fine, divisivi e separatisti? Insomma, il pericolo che vedo è la moltiplicazione dei ghetti, l’incapacità di confrontarsi con il diverso da sé, con l’Altro, insomma il rischio di una mentalità chiusa e da ghetto anche in chi dice di voler aprirsi. Sarò forse un illuso, ma continuo a credere fortemente in una Comunità plurale ma unitaria, dove si riesce a parlarsi TUTTI, dentro un unico contenitore. Senza contare che, in genere, i progetti culturali centrifughi e “alternativi” rischiano di ingenerare personalismi con i suoi relativi cortigiani.
La nascita di altri Movimenti “extracomunitari”, in particolare a Milano come a Roma, sono, secondo lei, un’opportunità, un’occasione, un rischio per l’ebraismo italiano?
Ognuno ha il diritto di essere ciò che crede, a patto che le scelte siano fatte su basi esistenziali consapevoli e meditate. Quando questo non accade – e quando tali scelte vengono dettate da impulsi infantili o di rivalsa -, diviene inevitabile che la moltiplicazione pseudopluralista diventi divisiva e portatrice di una conflittualità scismatica. L’importante è non ragionare per etichette ed evitare i ping pong ideologici. La diffusa diffidenza nei confronti del diverso da sé produce aggressività e tutto questo è sintomo di un’identità fragile che non regge il confronto con l’altro. Personalmente vedo in questi fenomeni un modo di associarsi e raggrupparsi in ragione dei bisogni individuali (al fine di modificare alcune regole della Halachà a proprio uso e consumo), che non invece l’esito di progetti e idee comuni. Insomma, vedo una ricerca spasmodica del consenso a detrimento del dibattito interno; il rischio sarebbe scivolare nella trappola scissionista che, in un Paese come l’Italia, con numeri così bassi, 25 mila ebrei circa, è insensato.
Quali quindi le prospettive?
Il Moked rappresenta un’occasione di autocoscienza e autoconsapevolezza, di confronto tra le varie anime dell’ebraismo d’Italia, dove poter mettere sul tavolo tutto ciò che urge. L’occasione per costruire un ebraismo portatore di contenuti autentici e non lucidato o da esportazione, un ebraismo forse meno appariscente, più scomodo e difficile, ma infinitamente più complesso e sottile. Le attività culturali tese a rafforzare l’identità ebraica – e non solo a creare intrattenimento – dovrebbero costituire il collante più forte di fronte alle frammentazioni latenti nell’ebraismo italiano. Oggi le Comunità fanno molta fatica a costituire una sintesi tra le diverse anime. La scommessa di costruire ponti è invece molto importante, è come cercare di rimettere assieme i molti pezzi di noi stessi e assumere coscienza che le persone e le questioni sono articolate. Il monadismo e l’autoreferenzialità stanno moltiplicando ghetti sociali e culturali sempre più esclusivi e asfittici.
C’è un modo, secondo lei, di intercettare i bisogni della modernità senza snaturare le peculiarità dell’ebraismo italiano?
Nelle nostre Comunità l’adesione a un’idea o a un progetto avviene sempre più spesso sulla base di sodalizi personali e ideologici, e non piuttosto sulla base di una valutazione razionale, libera da pregiudizi. L’interesse stesso della Comunità passa allora in sott’ordine rispetto alla volontà di affermare il potere e il prestigio di questa o di quella corrente. E così diventa sicuramente più comodo e demagogico accusare la Comunità di scarsa apertura e capacità propositiva, e obiettare che le varie e differenziate offerte di cultura ebraica comunitarie non rientrano nei propri interessi. Il fatto è che molte persone vivono serenamente sazie e non vogliono essere davvero stimolate. Preferiscono portare avanti il loro stile di vita usuale e illudersi di praticare un significativo metodo di vita ebraica. Così, molti tendono a non riconoscere la serietà del problema.
Mi scusi, ma che cosa rende ebraica una Comunità?
Innanzitutto il continuo uso e la familiarità attiva con il portato culturale ebraico. Non un ebraismo da vetrinetta, da esibire nei salotti buoni. Ma quando la cultura ebraica rimane essenzialmente passiva, non frequentemente abitata, ma un’esperienza vissuta da spettatore o come un semplice processo di conoscenza, finisce col divenire irrilevante e perfino banale se paragonata alle seduzioni della cultura dominante in cui siamo immersi. Ma vi è anche un altro problema oggi diffuso in molti modelli comunitari. È il modello di Noach-Noè, che è il Giusto che si scalda con la pelliccia e si chiude nell’Arca per proteggere dal diluvio se stesso e i propri cari: un modello molto presente oggi, che viene scelto e preferito rispetto a quello di Avraham che alla pelliccia preferisce invece accendere il fuoco e tentare di scaldare (oltre se stesso) anche altri andando verso di loro. Fare davvero Comunità significa cercare di non lasciare indietro nessuno e scegliere il modello di Avraham.
Il bene dell’ebraismo italiano merita uno sforzo di unità e di fantasia
Come intervenire allora?
Le Comunità dovrebbero preoccuparsi di favorire e promuovere spazi di studio e confronto per poter affrontare, con cognizione di causa e maggiore consapevolezza, non solo dibattiti e discussioni, ma anche e soprattutto proposte e percorsi di soluzione ai veri problemi della gente. I problemi che assillano l’ebraismo italiano, in forte crisi di identità, sono spesso affrontati da un’angolazione troppo ideologica e autoreferenziale, tale da generare polemiche improduttive e distruttive, spesso figlie di logiche di schieramento e di etichette preconfezionate. Dovremmo ricorrere al contributo di esperti autorevoli, per potere affrontare percorsi di soluzione. Il bene dell’ebraismo italiano merita uno sforzo di unità e di fantasia. Le tensioni interne obbligano tutti a un impegno, a una assunzione di responsabilità che non può essere delegata ai pochi.
Veniamo a Israele. Molti olim italiani lamentano che, una volta lì, non sanno come collocarsi, come reimpostare la propria identità ebraica: laica? Religiosa? Tradizionalista? Chi viene dall’Europa è abituato a maggiori sfumature con cui definire la propria identità. E spesso l’Alyià viene vissuta in modo idealizzato, naif o non pragmatico. Lei ha riflettuto molto sulla questione…
Israele è spesso vissuto da noi ebrei della Diaspora in modo poco profondo, emotivo, infantile. Ma Israele non è un parco giochi per gli ebrei, non è solo un luogo di vacanza o un parcheggio per chi sta male a casa sua. E non è neppure un luogo che deve destare solo angoscia, paura e preoccupazione a causa del conflitto. Dobbiamo allargare, nutrire gli orizzonti mentali con cui ci rapportiamo a Israele. Uscire dalla retorica della patria ancestrale per capire che Israele è un luogo di cui cogliere la fertilità profonda: scientifica, spirituale, letteraria, sociologica… Non trascurare ad esempio l’ebraico e generare nuovi stati d’animo, perché la lingua resta il vero ponte tra la sacralità e il quotidiano, tra passato e presente, tra il profano e lo spirituale. E accogliere gli stimoli esterni. Quest’anno il Moked è stato un successo, con interventi e relatori assolutamente eccezionali e stimolanti, come Shmuel Trigano, Giovanni Matteo Quer, Claudio Vercelli, Donatella Di Cesare, Maurizio Molinari, David Meghnagi, Amedeo Spagnoletto, Sharon Kabalo. L’obiettivo del Moked è una programmazione culturale capace di unire e non dividere, laddove l’obiettivo è quello di creare un network tra le comunità per attivare un dibattito interno che trascenda i soliti slogan. E poi sprovincializzare l’ebraismo italiano chiamando figure di spicco del mondo intellettuale internazionale, pensatori e oratori che risveglino curiosità e nutrano nuovi punti di vista. Inoltre, il Moked 2018 mi ha dato nuovi input: vorrei lanciare seminari sulla Storia del sionismo e Storia di Israele, la cui conoscenza è assai meno scontata di quanto si creda.
Non a caso, lei ha dedicato il Moked 2018 e molti incontri di Kesher ai 70 anni dello Stato di Israele…
La nascita di Israele ha radicalmente cambiato la coscienza e la percezione che gli ebrei hanno avuto di sé e della relazione con il resto del mondo. Lo Stato ebraico è stato il prodotto di un movimento di pensiero ebraico, minoritario e spesso contrastato, che costituisce ancora una grande sfida intellettuale, sociale e religiosa per l’intero ebraismo.
Oggi gli unici protagonisti della discussione interna e forse i soli vettori dell’identità ebraica sono, ahimè, tematiche come la celebrazione della Shoah e una certa ostentazione retorica dello Stato di Israele. Troppi di noi hanno costruito dietro a questi temi una identità ebraica povera, senza preoccuparsi di capire e di studiare.