di Rav Scialom Bahbout
In merito al suo intervento alla Knesset il 28 maggio sulle conversioni, di cui anche Mosaico ha dato notizia, riprendendola dal Times of Israel, il rabbino capo di Venezia Scialom Bahbout ha inviato una lettera di precisazione, che qui pubblichiamo per intero.
Sul mio intervento alla Kenesset
Ho atteso qualche giorno prima di inviare queste puntualizzazioni sul mio intervento alla Kneseth in occasione del dibattito organizzato dalla Vaadat haklità. I media non sono stati precisi nel riportare le mie parole, che purtroppo sono state anche manipolate.
L’invito a partecipare alle riunioni mi era stato notificato direttamente dalla Keneset. Tutta la visita era a mio carico: il viaggio, la permanenza, i due giorni di ferie necessari per partecipare all’evento: nel corso delle riunioni il mio intervento ho dichiarato che parlavo a titolo assolutamente personale e non istituzionale, tant’è che nel “sottopancia” era scritto “Italia” (paese di provenienza) e non “Rabbino capo di Venezia”.
Il mio intervento era incentrato su un caso specifico: quello di una donna che, dopo aver fatto il Ghiur presso il ricostituito Beth din di Venezia, aveva presentato domanda di ‘Aliyà. Era stata già fissata la data in cui la donna doveva presentarsi in Israele e il luogo in cui sarebbe stata accolta. Poi all’improvviso la donna ha ricevuto una comunicazione che era stato tutto annullato in quanto qualcuno aveva informato le istituzioni preposte alla ‘Alyà dhe il Beth din che l’aveva convertita non era riconosciuto dal rabbinato di Israele.
Io non ho mai messo discussione il dovere – diritto del rabbinato d’Israele di verificare l’ebraicità della persona, ma il fatto che, una volta che l’Ente preposto all’accettazione aveva concesso il permesso di fare la Aliyà, sarebbe stato opportuno che venissimo contattati per un chiarimento. Soprattutto sarebbe stato opportuno consentire alla persona di presentarsi e arrivare nella data e nel luogo stabilito e farle sostenere un colloquio di verifica.
Non sono intervenuto sulla “politica” delle conversioni – argomento toccato da altri rabbini presenti alla riunione – ma sulla necessità di verificare sempre più da vicino i casi senza cadere nell’errore delle generalizzazioni e soprattutto evitare di creare l’illusione che la pratica per la ‘Aliyà è a posto.
È in corso in Israele una discussione su quali debbano essere i criteri che il rabbinato centrale deve adottare per approvare una conversione. Ritengo che questa decisione spetti al Rabbinato d’Israele, perché riguarda coloro che risiedono in Israele. Su questo tema sono i rabbini residenti in Israele che hanno il diritto – dovere di esprimere la propria opinione, mentre quelli che operano nella Diaspora possono certamente fare proposte, esprimere opinioni ecc, ma in ultima analisi devono attenersi alle decisioni prese dal Rabbinato Centrale: queste decisioni hanno valore esclusivamente per chi abita o chi vive in Israele oppure ha intenzione di stabilirvisi e vuole ottenere i diritti connessi con la cittadinanza, ma non possono essere impegnative per chi abita altrove, che siano più o meno rigorose.
Secondo la tradizione consolidatasi nella storia ebraica, recepita anche dallo Statuto dell’Ebraismo italiano, ogni Comunità deve attenersi alle decisioni del proprio rabbino. Ogni Comunità può avere diverse caratteristiche nei vari campi in cui si applica la Halakhà – Zedakà, kasheruth, mikvaoth, beth hakeneset, conversioni, matrimoni ecc : spetterà infatti al rabbino della Comunità applicare la Halakhà, consultandosi con altre autorità rabbiniche se necessario, per decidere quale sia la decisione più opportuna per la propria Comunità.
Penso che i rabbini nella loro opera dovrebbero occuparsi con la medesima intensità anche di altri problemi che non siano solo la kasheruth e le conversioni: il popolo d’Israele, ovunque egli sia, aspetta delle risposte sui tanti problemi che affliggono l’uomo moderno e sui quali la Torà ha molto da dire e da dare.