«Dobbiamo nutrire il futuro. Solo unite ce la possiamo fare». La copertina del numero di dicembre di Bet Magazine

Israele

di Ilaria Myr

Arabe ed ebree, israeliane e palestinesi. Dalla Galilea  a Gerusalemme al Mar Morto. Sono 45.000 le donne in marcia in nome di un futuro di pace per i propri figli. Un grido spontaneo, oltre ogni differenza politica, etnica, religiosa.  Un movimento nato dal basso con molti progetti.  Il più urgente? Fare approvare dalla Knesset una legge  contro la guerra. Un’inchiesta e testimonianze inedite

 

È lunedì, e come ogni settimana da qualche anno a questa parte, alcune donne vestite di bianco e azzurro si ritrovano in una sala della Knesset. Il 12 novembre non è però un lunedì come tutti gli altri: dal giorno prima il sud di Israele è sotto l’attacco dei missili lanciati da Hamas dalla Striscia di Gaza, e per chi abita al confine è l’allarme rosso che scandisce il tempo. Ma nonostante ciò, queste donne – arabe, musulmane, ebree, cristiane – anche in questo giorno vengono a parlare di pace davanti alla Knesset. Sono le attiviste del movimento Women Wage Peace, “le donne fanno la pace”, che oggi più che mai vogliono fare sentire la propria voce e fare vedere che ci sono.
«In un’occasione come questa, invece di dover venire io qui alla Knesset, mi sarei aspettata che la Knesset venisse da me! Voglio vedere se, con la loro politica, possono vivere sempre in allarme rosso, costantemente nella paura per la propria vita». A parlare è una di loro che vive al confine con Gaza che, dopo una notte di terrore, sfoga la sua disperazione con le “sorelle” (così si chiamano fra loro) del movimento. Alcune sono musulmane velate, altre ebree religiose, altre ancora donne di sinistra dei kibbutzim, tutte però accomunate da un’unica volontà: non vivere più in uno stato di guerra costante e tornare ai negoziati di pace.
«Non siamo sognatrici o utopiste, come in molti pensano: al contrario, siamo profondamente e, forse anche un po’ brutalmente, realiste – spiega convinta a Bet Magazine-Bollettino Shazarahel, italiana emigrata in Israele 14 anni fa, ebrea ortodossa, attivista del movimento, anche lei presente alla Knesset lunedì 12 -. Siamo stufe che l’unica soluzione, da 70 anni a oggi, sia la guerra, che porta solo sofferenza e morte. Purtroppo ancora oggi se parli di pace sei tacciato di essere “di sinistra”. Ma l’eterogeneità di questo movimento dimostra che volere la pace non è di destra né di sinistra, ma è un sentimento universale».
Un movimento nato dal basso
Il movimento Women Wage Peace (“Nashim osot shalom” in ebraico) nasce nel 2014 in seguito all’Operazione Margine di Protezione (Tzuk Eitan) a Gaza, una sanguinosa guerra durata 50 giorni, con molti morti e feriti da entrambe le parti. Pochi mesi dopo, a novembre, durante l’annuale cerimonia in memoria di Yitzhak Rabin, alcune donne, sia ebree che musulmane, salgono sul palco in modo del tutto spontaneo, per dire basta alla guerra: un grido di donne e madri, al di là di ogni appartenenza etnica o politica, per affermare che l’unica soluzione alla risoluzione del conflitto è la pace. “Siamo qui e non smetteremo di fare attività finché le parti non torneranno ai negoziati”: questo il messaggio dominante lanciato a novembre del 2014, subito accolto da altre donne nei mesi successivi. «I pilastri chiari e condivisi fin da subito sono due – spiega a Bet Magazine-Bollettino Angela del kibbutz Bar’am, fin dall’inizio attiva nel movimento -. Il primo è il ritorno ai negoziati di pace per arrivare a un accordo, che deve essere necessariamente condiviso e accettato da entrambe le parti, senza imposizioni di una sull’altra. Il secondo è il ruolo centrale e fondamentale delle donne, che hanno molto da dare nella costruzione della pace. Non è un caso che la risoluzione 1325 del gabinetto di sicurezza dell’Onu sottolinei anche il contributo femminile per la fine dei conflitti e per la costruzione di una pace durevole».
A fare da fonte ispiratrice è l’esperienza di Leymah Gbowee, Nobel per la pace nel 2011 per la promozione della riconciliazione in Liberia, alla fine della guerra civile del 2003: a lei è stato dedicato il film Pray the Devil Back to Hell (2008, vincitore del Tribeca Film Festival). Femminista, creò il Women of Liberia Mass Action for Peace, che mise in atto una serie di iniziative pubbliche e non violente contro l’allora presidente del Paese Charles Taylor, riuscendo a condurre migliaia di donne cristiane e musulmane a riunirsi a Monrovia, dove per mesi hanno pregato per la pace. Ma c’è anche l’esempio dell’ebrea sudafricana Sharon Katz, ideatrice del “Treno della pace”, che con il suo coro itinerante di bambini di tutte le etnie del Paese contribuì alla fine dell’Apartheid.

Oltre le differenze
Apartitico, apolitico, aperto a chiunque veda nella pace l’unica soluzione al conflitto fra israeliani e palestinesi: sono queste le caratteristiche fondamentali del movimento, che da 40 persone, nel 2014, è passato, in soli quattro anni, a contare circa 45.000 iscritti, per la maggioranza donne, anche se non manca qualche uomo. C’è chi, come Angela del kibbutz Bar’am, dichiaratamente di sinistra, si è sempre battuta per la pace con altri movimenti, ma c’è anche Liora, ebrea religiosa che risiede in un insediamento in Samaria, Ahalei Zaav. «Ho inizialmente esitato perché le donne che erano venute a parlarne nel nostro yishuv, tendenzialmente schierato a destra, erano di estrema sinistra, e c’erano evidenti differenze di vedute – spiega a Bet Magazine -. Ma ho subito capito che l’obiettivo era creare un fronte comune ed eterogeneo: tutte vogliamo crescere i nostri figli in sicurezza e pace, e non importa se abbiamo opinioni diverse sul modo migliore per arrivarci. Quello che mi è piaciuto di questo movimento è che non divide, ma unisce persone diverse con un obiettivo condiviso e favorisce la conoscenza reciproca, superando i pregiudizi che ognuna porta con sé, e la nascita di splendide amicizie. Soprattutto, stiamo cercando di disegnare una nuova lingua: quella dell’ascolto dell’altro, anche di chi non la pensa come noi, ma che è giusto ascoltare. Stiamo ridando un senso alla parola “pace”, che negli ultimi anni era diventata quasi una parolaccia… E anche se non arriveremo nei prossimi anni a un accordo – cosa che invece spero – sono convinta che stiamo comunque facendo un lavoro molto importante».
Certamente le difficoltà non mancano. «In molti non capiscono la mia scelta, primo fra tutti mio marito – spiega – perché non ritengono che questa sia la strada giusta per arrivare alla fine del conflitto. Inoltre, nel mio ambiente è diffusa l’idea che chiedere con insistenza la pace equivalga a un’ammissione di debolezza agli occhi degli arabi, che porterà solo altro terrore e violenza».

Ma fare parte del movimento non è facile neanche per Amal, araba israeliana, musulmana di Yafo, che fin da subito vi ha aderito. «Quando mi sono unita al movimento mi sono detta: “voglio che la gente ascolti la mia voce, che sappia che faccio questo con tutte le mie forze, perché non c’è altra alternativa – ci spiega dalla sua casa di Yafo -. E non sono l’unica, molti arabi vogliono la pace: con gli ebrei israeliani lavoriamo, viviamo e abbiamo molte cose in comune, ma le persone non ci sentono. Purtroppo per molte donne arabe non è facile sposare questa causa, per l’opposizione dei mariti o perché semplicemente hanno paura di parlare, ma hanno fiducia in me e vogliono che io parli anche per loro». Amal, che proviene da una famiglia molto aperta al dialogo e allo scambio con gli ebrei e con le altre culture e religioni (un fratello è sposato con un’italiana cattolica e vive a Milano), per la sua scelta ha perso delle amicizie, ma non ha dubbi sulla sua bontà. «È sicuro che alcune misure del governo attuale non vanno nella direzione della pace e, anzi, sono dei passi indietro – ad esempio la legge sullo Stato-nazione -, ma non c’è alternativa – spiega -. In questi quattro anni il movimento ha fatto grandi progressi: una volta le persone non volevano sentirne parlare, mentre oggi ci ascoltano. Già l’avere unito donne musulmane, cristiane, ebree, arabe, a parlare, ballare e cantare insieme per me è un traguardo importante: abbiamo già fatto la pace».

In costante movimento
Grazie al lavoro e all’impegno incessante e volontario delle sue attiviste, dalla sua nascita ad oggi il movimento ha svolto innumerevoli iniziative: agli incontri organizzati localmente – proiezioni di film, discussioni, ecc… – si aggiungono appuntamenti annuali, che riuniscono donne da tutto il Paese. «Nel 2015, anno delle elezioni, ci siamo trovate davanti alla Knesset, per fare capire che il governo che sarebbe stato eletto avrebbe dovuto evitare la prossima guerra, cercando di tornare ai negoziati – spiega Angela di Bar’am -. Era anche l’anniversario della guerra a Gaza, e in centinaia abbiamo digiunato per 50 giorni in una tenda posta davanti alla casa del premier». Nel 2016 è la volta della Marcia della speranza, che ha portato migliaia di donne a Gerusalemme, mentre l’anno successivo, nella Marcia della pace, arabe e israeliane hanno camminato dal nord fino al Mar Morto, in un viaggio durato 14 giorni: qui, in una cerimonia molto emozionante, si sono unite delle palestinesi – per le quali il movimento aveva ottenuto dei permessi speciali dalle autorità israeliane – ed è intervenuta anche la liberiana Leymah Gbowee. Parallelamente, una volta alla settimana, alcune centinaia di donne vestite di bianco e turchese si ritrovano alla Knesset per parlare con i deputati e assistere alle sedute: grazie al fatto di essere diventate una lobby all’interno del Parlamento, possono seguire da vicino i lavori ed essere in costante contatto con i suoi membri.
Il 2018 è stato un anno particolarmente intenso: per tutta l’estate davanti alla Knesset è rimasta la “tenda del dialogo”, dove le persone potevano entrare e conoscere il movimento. Il 20 settembre, poi, si è tenuta una grande marcia verso Gerusalemme, al ritmo di canti (fra cui un’inedita versione di We shall overcome in ebraico e arabo) e balli. Ma questo è soprattutto l’anno che ha visto nascere nel movimento la volontà di portare alla Knesset una proposta di legge, che obblighi i governanti a valutare tutte le possibili soluzioni per evitare una nuova guerra. «Dopo l’operazione Margine di Protezione il Controllore di Stato ha sostenuto, in varie analisi, che il governo non aveva preso in considerazione delle alternative alla guerra, che pure erano state avanzate – racconta Rahel -. Abbiamo quindi stilato una proposta di legge che è stata presentata il 13 novembre dal deputato del Partito laburista Hilik Bar (una legge deve essere necessariamente presentata da un membro della Knesset, e non da un normale cittadino, ndr). Attendiamo di capire che cosa succederà. Ma intanto siamo arrivate a fare parlare di noi alla Knesset, ed è già un grande passo».
Infine, il 27 novembre si è tenuto all’Università di Tel Aviv il Congresso nazionale, con la partecipazione di relatrici e personalità anche provenienti dall’estero: conferenze, spettacoli, giochi e laboratori organizzati per quello che oggi è il movimento nato dal basso più grande in Israele, che punta a coinvolgere sempre più giovani, al momento in minoranza.
«Quali saranno i prossimi passi? Non lo sappiamo – ammette Shazarahel -: la strada è ancora lunga, ma non ci arrendiamo. Nonostante le tante difficoltà questo movimento è una forza: siamo tutte volontarie, senza alcun finanziamento e con molto poco sostegno dei media. Ma stiamo creando un vero sentimento di fratellanza e condivisione che per troppo tempo è mancato in Israele. Da qui dobbiamo ripartire, non c’è altra scelta».

 

 

Angelica Calò Livnè, pioniera della pace

Un’altra voce interessante è quella di Angelica Calò Livnè, fondatrice e direttrice dell’organizzazione no profit Teatro Arcobaleno-Beresheet LaShalom, un progetto educativo che incoraggia il dialogo fra ragazzi di tutte le etnie israeliane attraverso il palcoscenico. Il teatro Arcobaleno coinvolge al suo interno giovani di tutta la regione: arabi, ebrei, drusi e circassi. Una realtà che educa ogni anno più di trenta adolescenti. In Italia è ormai di casa visto che ha organizzato circa cinquanta spettacoli nel Bel Paese.
Com’è arrivata alle “donne fanno la pace”?
Quando si è capito che non bastava mandare avanti un messaggio esclusivamente razionale, ma bisognava coinvolgere emotivamente quante più persone possibile, sono stata cooptata per organizzare eventi fuori dagli schemi ma soprattutto assolutamente privi di ogni messaggio politico.
E qual è stata la soluzione?
Abbiamo organizzato dei “flash mob” nei mercati centrali di città più o meno grandi. Ci siamo messe insieme a cantare e ballare riuscendo a coinvolgere passanti e venditori. Tutte eravamo vestite di bianco per dare un carattere neutro all’evento. Vorrei sottolineare che tutti questi eventi sono stati organizzati in posti come Gerusalemme, dove la popolazione è tradizionalmente attestata su posizioni di destra. In un altro evento più di 100 partecipanti hanno cantato We shall overcome nelle frontiere calde del paese: Libano, Siria e Gaza, in tre lingue, ebraico, arabo e inglese. Queste iniziative possono essere “una scintilla” che, per quanto possa apparire piccola e insignificante, può portare a grandi cambiamenti. È un messaggio che proviene dal basso, da gente stufa di guerre e disposta a molte rinunce pur di arrivare a un giusto accordo di pace. La vera speranza è quella di incoraggiare un dialogo fra le parti; solo comprendendo le motivazioni e il dolore dell’altro sarà possibile cambiare la prospettiva. Luciano Assin