di Marina Gersony
Letteratura in lutto. Amos Oz, voce della storia di Eretz Israel, il grande scrittore tradotto in tutto il mondo, l’uomo che ha cavalcato con le sue opere il Secolo Breve e il nuovo millennio, critico nei confronti dei governi di destra e favorevole a un dialogo con i palestinesi, è morto a 79 anni lasciando il segno, come accade con i Grandi (La figlia: «Se ne è andato nel sonno e in pace, circondato dalle persone che lo amavano»). La sua grandezza non va misurata tuttavia soltanto con lo spessore dell’artista, bensì con quell’inequivocabile qualità umana che lo ha contraddistinto. Chi ha avuto il privilegio e l’onore di incontrarlo, ha avuto modo di coglierne la generosità, l’intensità e la capacità di leggere con acume e sensibilità lo Zeitgeist e le cose del mondo.
Quanto abbia colpito la sua scomparsa lo si evince anche dai numerosi commenti pieni di affetto e di stima postati sui social da parte di estimatori, addetti ai lavori, amici e lettori. Perché Oz, con la sua persona e con la sua opera, ha saputo fondere il particolare con l’universale toccando le corde più intime e profonde di un sentire collettivo. La sua biografia è nota: nato Amos Klausner a Gerusalemme nel 1939, lo scrittore, giornalista e docente di Letteratura alla Università Ben Gurion del Negev, ha raccontato attraverso la storia della sua famiglia, tra cui il suicidio della madre quando aveva dodici anni, le vicende storiche del nascente Stato di Israele dalla fine del protettorato britannico. Non solo: la guerra di indipendenza, gli attacchi terroristici dei Fedayyin, la vita nei kibbutz e altro ancora. Molto stimato anche in Italia, nel settembre 2016 era stato insignito della laurea honoris causa dell’Università Statale di Milano.
Chi scrive ha avuto modo di incontrarlo diverse volte nel corso degli anni: a Mantova durante il Festivaletteratura o a Milano quando spesso veniva per presentare i suoi libri; non ultimo al Tempio Centrale di via Guastalla, dove nel 2014 ha tenuto una memorabile lectio ricca di sapienza e intensità. Commuovono dunque le numerose testimonianze che si leggono online e che, tutte insieme, ricompongono la figura di questo grande uomo impegnato anche politicamente (tra le varie iniziative, ricordiamo la sua adesione a Hatnua Hahadasha, NuovoMovimento, la formazione politica nata diversi anni fa su iniziativa di un gruppo di intellettuali e di esponenti politici, tra i quali Abraham B.Yehoshua e Avraham Burg, per una soluzione politica al conflitto con i palestinesi).
Chi scrive, dicevamo, ricorda un incontro a Milano avvenuto nel 2007, sembra un secolo fa. In un’intervista per Il Giornale – che riassumiamo di seguito – siamo partiti dal suo libro Non dire notte (Feltrinelli), la storia di un amore maturo tra un uomo e una donna che si consumava tra alti e bassi a Tel Kedar, una tranquilla cittadina israeliana nel deserto del Negev; una città dove vivono vecchi e nuovi immigrati, persone colpite da tragedie immani ma anche personaggi vitali e pieni di speranza. Di sottofondo un tema sempre molto caro allo scrittore, un tema attualissimo, l’esilio.
«Viviamo nel mondo dell’esilio – osservò Oz nel corso dell’intervista –. L’esilio, anche quello interiore, non è soltanto una condizione ebraica, è un’esperienza umana oggi molto diffusa. Nel libro scrivo di un microcosmo, una città nuova e artificiale incastonata nel deserto, dove ognuno proviene da luoghi diversi. Gli stessi israeliani non sono nati lì. Sono tutti degli esiliati. Ma è anche una condizione che offre maggiori prospettive». Gi avevamo chiesto perché avesse scelto un luogo simile, così straniato e insieme straniante: «Per me era importante parlare di un luogo di provincia. Anche il provincialismo è una condizione molto diffusa. Non riguarda soltanto le persone che vivono nelle piccole città, ma anche quelle che vivono nelle grandi metropoli, come Milano o New York. Ma non sempre la gente si rende conto di essere provinciale sotto molti aspetti».
Già, perché immigrare significa anche sofferenza, frattura con il passato, dover ricominciare da capo in ambienti spesso ostili: «La sofferenza è un’altra condizione dell’essere umano – mormorò Oz –. Ho scritto molto sull’argomento perché si tratta dell’esperienza più profonda che ogni singolo individuo conosce e sperimenta su se stesso».
Nel corso dell’intervista abbiamo parlato quindi di un mondo sempre più mescolato e meticcio, un fenomeno che i nazionalismi cercano ad ogni costo di ostacolare. Allora, più di dieci anni fa, chi avrebbe previsto quello che sarebbe accaduto oggi in Italia e in Europa, con un’ascesa verticale di populisti e sovranisti? «Non sono un profeta – affermò Oz con l’onestà intellettuale che gli era propria –. Non so quello che potrà succedere tra cinquecento o più anni. Per uno che viene da Israele come me è difficile fare profezie. Da noi, quello delle profezie, è un business dove c’è troppa concorrenza». E aggiunse: «Israele è un Paese di immigrati. Gli israeliani scherzano su questo argomento. C’è una barzelletta che dice: qual è la definizione di “nuovo immigrato”? È una persona che il primo anno si lamenta del governo che non fa mai abbastanza per integrare gli immigrati; il secondo si lamenta che gli autoctoni non sono gentili come dovrebbero e il terzo anno se la prende con gli immigrati appena arrivati perché ricevono troppe attenzioni. Ecco, questo è Israele». Sull’Italia lo scrittore aveva un’idea precisa: «Per voi è solo l’inizio di una nuova esperienza anche se le migrazioni dei popoli fanno parte della storia. Gente che va, gente che viene. In Israele è sempre stato così. È un’evoluzione continua. Quando ero bambino in Israele si contava mezzo milione di abitanti, adesso ce ne sono cinque milioni e mezzo». Parole che valgono più di una riflessione.
Scrittore controcorrente, spesso ribelle, non esitò a dare una nuova lettura di Giuda, personaggio assai controverso per il mondo cristiano e molto complesso anche per l’ebraismo tradizionale per l’assonanza assurda e rischiosa con “Giuda” e “Giudei”; un’assonanza utilizzata come clava da parte di un diffuso sentimento antisemita antico e recente: quante volte l’Iscariota è stato descritto come l’“avido, bugiardo e traditore”? Uno stigma attribuito per secoli agli ebrei in vari Paesi e contesti. Nel suo romanzo Giuda, pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 2014 con la traduzione di Elena Loewenthal, lo scrittore israeliano affrontò il tema del tradimento con la diversa prospettiva di colui che guarda e vede con probabilità più avanti degli altri. Rispondendo a una domanda di Elena Loewenthal per La Stampa, Amos Oz ha infatti spiegato: «Sono sempre stato attratto dai traditori. Mi affascina la persona che gli altri chiamano “traditore” perché anticipa i tempi. È l’uomo che cambia mentre gli altri no e non capiscono, anzi temono il cambiamento. Anch’io sono stato chiamato e ancora mi chiamano traditore. Ma considero questo appellativo alla stregua di una medaglia! E sono in ottima compagnia. Il profeta Geremia è chiamato traditore. Come Abramo Lincoln che ha abolito la schiavitù. Churchill che ha fatto a pezzi l’impero britannico e De Gaulle che ha posto fine al colonialismo francese sono stati accusati di tradimento. Per non parlare di Ben Gurion che nel novembre del 1947 ha accettato la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo. Anwar el-Sadat, che ha fatto la pace con Israele, è stato ammazzato perché lo consideravano un traditore. Begin che ha restituito il Sinai all’Egitto, Rabin che ha fatto la pace con i palestinesi: anche loro sono stati chiamati traditori. In breve, è un club di cui sono fiero di fare parte. E in questo mio romanzo, tra i fantasmi che abitano l’ultima casa di Gerusalemme, c’è anche Giuda Iscariota, l’oggetto della tesi di laurea che Shmuel (uno dei protagonisti del romanzo, n.d.r.) lascia bruscamente a metà. Giuda è un traditore, ma è anche il più fedele discepolo di Gesù. È, soprattutto, colui che lo ama più di ogni altro». Questioni insomma, di prospettiva e di come si vogliono vedere e valutare le cose.
Ci mancherai, Amos Oz, mancherà il tuo spirito libero e la tua Forza così come il tuo nome (oz, חוזק, forza). La tua memoria sia per sempre in Benedizione.
Un’altra intervista dell’articolista ad Amos Oz, intitolata Dobbiamo insegnare la pace ai bambini, è apparsa sempre su Il Giornale nel mese di luglio del 2008.