di Samuel Carpentiere
Dalla cassiera del supermercato ai parlamentari, dal medico al panettiere, tutti sentono il dovere di esprimere un parere sulla scuola, di denunciarne i limiti spesso vantando a proprio titolo il solo fatto di averla frequentata. Sovente lungi dal fare riferimento ad analisi razionalmente fondate, nei discorsi diffusi ciò che manca è un’Idea – nel significato più profondo di questo termine – di scuola, la quale dovrebbe costituire un punto di riferimento irrinunciabile sia per le politiche scolastiche sia per la pianificazione di concreti processi innovativi. La scuola è un “nodo discorsivo” che interessa quotidianamente il 47% degli italiani (operatori, studenti, genitori) e l’avvenire di tutti perché affonda le proprie radici nello spirito identitario delle vecchie e nuove generazioni, trasmettendo a queste ultime l’arduo compito di accrescere le proprie conoscenze. Ovide Decroly così si esprimeva nel 1937: «Il più bell’ideale per una nuova generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità; ridurre le cause dei malintesi; i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue, i conflitti, inutili. Questo è l’ideale dell’educazione. Senza di esso, la ragione stessa di essere dell’uomo svanisce. Se non ci fosse un bambino da allevare, da proteggere, da istruire e da trasformare nell’uomo di domani, l’uomo di oggi diventerebbe un non senso e potrebbe scomparire».
L’errore comune è di pensare alla scuola solo come retaggio di un’epoca passata. Se fossimo capaci di superare questa lettura superficiale potremmo prendere atto che la scuola, al contrario, è strettamente legata al concetto di futuro. Andare incontro ad esso con le spalle rivolte verso il “bel tempo che fu” significa scontrarsi con il muro del reale, della concretezza materiale che anima le nostre esistenze; vuol dire privare le nuove generazioni di un’esperienza profonda di crescita (consapevoli di tutta la fantasmatica ansiogena che evoca questa espressione).
La crisi della scuola è la crisi del concetto stesso di Educazione, in una società che ha perso la bussola del proprio senso esistenziale, dei rapporti di reciprocità, delle relazioni dialogiche fondate sul rispetto. La scuola, di conseguenza, diventa palcoscenico di una fatica latente che si traduce nella contrapposizione di tutti i suoi attori. Un “non luogo”, quindi, nel quale la confusione dei ruoli sembra l’unica “il-logica” a muovere i desideri dei soggetti. E la confusione, in educazione, è sempre foriera di malintesi: l’insegnante fa lo psicologo, il genitore l’insegnante, il cartolaio desidera fornire indicazioni metodologiche sul fare scuola… In mezzo a una gestione “schizofrenica” dei rapporti tra adulti sono soprattutto bambini e adolescenti a farne le spese. Genitori, insegnanti, dirigenti scolastici dovrebbero trovarsi uniti dall’obiettivo prioritario di sollecitare una comunicazione autentica e costruttiva, fondata sul riconoscimento di ciò che compete individualmente alle figure formative preposte alla crescita dei bambini e dei ragazzi. Come afferma il Professor Ermanno Ripamonti: «La partecipazione non è confusione di ruoli, nel momento in cui si confondono i ruoli non si realizza più nessun progetto». Non si tratta di una difesa sindacale del ruolo del docente, ma di chiarezza procedurale e operativa edificata sulla valorizzazione delle capacità dell’insegnante, chiamato oggi ad accogliere l’epistemologia della complessità e a formarsi, ogni giorno, per diventare un “professionista riflessivo” .
La nozione di crisi, evidenziava magistralmente Massa, può essere declinata secondo due accezioni: nella prima prevale un registro di malessere e sofferenza, una sensazione di frustrazione e fallimento, di apatia e impotenza. Nella seconda, al contrario, la crisi può raffigurarsi sotto il segno di una instabilità aperta e dinamica, che attiva energie e risorse, sollecitando a essere inventivi e propositivi. In virtù di quest’ultima lettura l’esperienza di crisi può essere un incentivo per ripensare la forma-scuola nel suo significato più profondo. La scuola deve tornare a essere scuola: luogo di educazione, istruzione e formazione. Con ciò non vogliamo riferirci a una istituzione disfunzionale, passatista, arroccata morbosamente a una visione desueta dell’educare e dell’istruire; ma a uno spazio di confronto all’interno del quale si rispettino le competenze e i ruoli di ciascuno.
Al di là dei flebili interventi riformatori che non hanno prodotto quasi niente sul piano della qualità (principalmente per l’assenza di una moderna capacità di gestione amministrativa), di alcuni opinabili consigli che provengono dal mondo dell’economia, delle derive tecnicistiche di una gestione aziendalistica della scuola, che dalle analisi più attente stanno rivelando tutti i loro limiti, un iniziale superamento del concetto di crisi richiede anzitutto il reciproco rispetto, come condizione indispensabile per ripensare non alla scuola, ma la scuola nel suo specifico educativo. Scriveva Arturo Graf alla fine dell’Ottocento: «La scuola non può fiorire, non può dare i migliori suoi frutti in mezzo a una società che poco l’ami e poco la rispetti».