di Ugo Volli
[Scintille: letture e riletture] Genocidio e negazionismo, Stato nazionale e rapporto con le etnie di minoranza.
Fra i molti doni intellettuali che l’ebraismo ha fatto alla cultura moderna (per citarne solo alcuni, il monoteismo, l’idea di un giorno ricorrente di riposo, la protezione dei deboli come diritto), ve n’è uno moderno e terribile che ha però radici nell’Esodo e nel libro di Ester: la definizione del crimine di genocidio. Il nome e anche la formulazione giuridica del concetto generale che gli corrisponde si devono all’avvocato ebreo polacco Rapahel Lemkin, che lo propose nel 1944, dopo essere sfuggito per un pelo ai nazisti, in un libro intitolato Axis Rule in Occupied Europe: Laws of Occupation – Analysis of Government – Proposals for Redress. Ma Lemkin, già prima della seconda guerra mondiale, si era occupato dei crimini contro l’umanità e aveva proposto alla Società delle Nazioni di bandire ciò che chiamò “Barbarie” (lo sterminio di un’etnia) e “vandalismo” (la distruzione della cultura di un’etnia).
Lo aveva fatto a partire da un altro genocidio, quello subito dagli armeni e già allora, ma ancora oggi, oggetto di un ostinato negazionismo di Stato da parte della Turchia che ne era stata la responsabile con un lungo sterminio programmato, che ebbe il culmine fra il 1915 e il 1917.
Senza negare l’unicità della Shoah, vi è un’evidente somiglianza fra i due genocidi, compiuti ai danni di due piccoli popoli privi di Stato e dispersi nell’esilio. Molti ebrei avevano fatto il possibile per opporsi al genocidio degli armeni, dall’ambasciatore americano Henry Morgenthau, alla famiglia di Aaron Aaronson. Dall’altra parte, in un discorso segreto ai generali, perplessi di fronte alla “soluzione finale della questione ebraica”, lo stesso Hitler il 22 agosto del 1939 li aveva rassicurati dicendo “Chi parla ancora oggi dell’annientamento degli armeni?” Anche in questo caso il negazionismo faceva parte fin dall’inizio del progetto genocida e a lungo esso sembrò aver successo, anche a causa della riluttanza degli alleati a denunciare quel che sapevano perfettamente e a cercare di contrastarlo militarmente.
Genocidio e negazionismo fanno dunque corpo, perché a differenza di altri crimini, come il terrorismo, il genocidio non è fatto per essere proclamato in pubblico, anche se è preparato da azioni di propaganda che disumanizzano e rendono ridicole e odiose le vittime. Ma è un atto così terribile da doversi consumare nel segreto e da non poter essere ammesso neppure dopo i fatti, se non in seguito a una sconfitta decisiva e a un cambiamento generazionale, come accadde in Germania.
La Turchia, sconfitta inizialmente nella Prima Guerra Mondiale e costretta dalle potenze occidentali a riconoscere il delitto e a istituire processi contro i principali carnefici, fu in grado poi di tornare indietro da queste sue ammissioni, grazie a un accordo coi comunisti russi e all’incapacità occidentale di contrastarne il riarmo. Per cui non solo il genocidio si rinnovò nella guerra di riconquista guidata da Mustafà Kemal detto Ataturk, ma fino a oggi, a più di un secolo di distanza, il negazionismo è una delle politiche fondamentali dello Stato turco, con l’appoggio di leggi che proibiscono il vilipendio della nazione.
Di recente è uscito in italiano presso l’editore Guerini I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio armeno di Siobhan Nash Marshall: un libro importante che riflette in maniera approfondita e motivata su questo nesso, studiando soprattutto un problema che tormenta anche chi si occupa della Shoah: perché la strage? Perché uno Stato in difficilissime condizioni di guerra impegna forze importanti per distruggere un popolo inerme? Perché non solo sadici aguzzini ma persone normali vincono la naturale riluttanza contro l’omicidio sterminando anziani, donne, bambini, uomini inermi?
L’analisi approfondita di Nash Marshall si occupa dell’insicurezza turca dopo il crollo dell’impero multinazionale ottomano che dominavano: è proprio la mancanza di una realtà nazionale consolidata che spinge i turchi ancora oggi a cercare di eliminare tutte le popolazioni non omogenee e a inventarsi la patria in territori che avevano invaso. Il caso tedesco è evidentemente diverso, ma anch’esso ha a che fare con la dialettica fra la volontà imperiale di dominio e la pluralità delle popolazioni: un tema che ancora oggi è di attualità. Si parla oggi spesso dei pericoli del nazionalismo, ma certamente gli imperi e in genere le organizzazioni multinazionali che rimuovono l’eterogeneità della loro base territoriali sono ancor più pericolose. Oggi questo è chiaramente il caso nelle minacce islamiste di distruggere Israele e nel negazionismo storico sul legame fra popolo ebraico e la terra di Israele che le accompagna.
Leggendo il libro di Nash Marshall, oltre a una asciutta, lucida e terribile cronistoria del genocidio armeno, e a un’analisi delle sue cause si trova una riflessione di carattere generale che riguarda profondamente il mondo ebraico, come già compresero Lemkin e gli Aaronson. È importante continuare a testimoniare di un genocidio negato e studiarlo per capire i pericoli che ci stanno ancora oggi di fronte.