(Da sinistra: Roberto Cenati, Gadi Luzzatto Voghera, Marco Paganoni, Rav Alfonso Arbib, Dina Porat e l’interprete).
di Ilaria Myr
A qualche settimana dalla manifestazione del 25 aprile a Milano, dove da qualche anno sfilano anche le bandiere della Brigata Ebraica – purtroppo puntualmente aggredite verbalmente da un manipolo di pro-palestinesi -, l’Adei-Wizo ha organizzato, il 28 marzo a Milano, in collaborazione con il Municipio 7, un interessante incontro aperto alla cittadinanza dedicato proprio alla storia di quei 5000 ebrei provenienti dall’allora Palestina che si arruolarono nell’esercito inglese per combattere il nazismo. Relatrice d’eccezione la storica israeliana Dina Porat, insieme a Roberto Cenati, presidente dell’Anpi provinciale di Milano, Gadi Luzzatto Voghera, direttore del CDEC, e Rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano. Moderatore lo storico e giornalista Marco Paganoni.
Sugli insulti vergognosi del 25 aprile
«Quante volte io, figlio di un deportato e con metà della famiglia deportata durante la Shoah, sotto la pioggia di insulti alla Brigata ebraica in piazza San Babila il 25 aprile mi sono sentito ferito e offeso – ha esordito Gadi Schoenheit, consigliere della Comunità ebraica -. Parlare del suo valore e dell’importanza che ebbe nella sconfitta del nazismo e della riconquista della libertà è un dovere».
Sulla manifestazione del 25 aprile e sugli insulti che ogni anno vengono rivolti a chi sfila dietro i vessilli della Brigata ebraica si è espresso anche Roberto Cenati, presidente Anpi provinciale di Milano, fra gli enti promotori del corteo. «Ho sempre denunciato con forza le vergognose aggressioni verbali, che rovinano questa grande manifestazione nazionale che si tiene a Milano per la liberazione dell’Italia – ha spiegato -. Si tratta di un gruppo sparuto di provocatori, che è oggi al centro di un’inchiesta della procura di Milano. Di contro, la maggioranza dei partecipanti applaude ed esulta al passaggio delle bandiere della Brigata».
Cenati ha sottolineato l’importanza di quei combattenti che combatterono in Italia e che, a guerra finita, ebbero un ruolo fondamentale nel prestare soccorso ai sopravvissuti e nella ricostruzione della Comunità ebraica di Milano. «Oggi purtroppo assistiamo a un risorgere dell’antisemitismo in Italia e in Europa in generale. Non ce lo aspettavamo e siamo esterrefatti – ha continuato -. Spero vivamente che le indagini della procura portino al fermo di altri manifestanti che mascherano l’antisemitismo con l’antisionismo, attaccando chi partecipò alla liberazione del Paese».
Storia della brigata ebraica
A introdurre la relazione di Dona Porat sono state le belle parole di Herbert Fuchs, all’epoca un bambino, che conobbe l’esperienza della Brigata ebraica in prima persona. «Avevo 12 anni, era nella colonia di Piazzatorre con i militari con la stella di Davide. Mi ricordo che mangiavamo molti ceci – ha spiegato. E che i ragazzi non mi sputavano più in faccia perché ero ebreo».
«Sono sinceramente stupita che in Italia la storia della Brigata ebraica sia poco conosciuta» ha poi esordito la storica Dina Porat, che nella sua lunga analisi ha fornito spunti molto interessanti sulla brigata ebraica e il suo ruolo. La brigata ebraica, ha ricordato Porat, nasce ufficialmente nel 1944 dopo l’annuncio di Winston Churchill, che accolse le pressioni del mondo ebraico e dell’agenzia ebraica negli Usa. «Si arruolarono 5000 persone, soprattutto uomini, che combatterono dal marzo all’aprile del 1945 nel nord Italia – ha spiegato -, e contribuirono in modo determinante alla liberazione partecipando alla grande battaglia intorno al fiume Senio, dove in 30 furono uccisi e 70 feriti».
Ma cosa avvenne dopo la guerra? Questo è un primo importante aspetto su cui la storica ha posto l’attenzione, mettendo l’accento in particolare l’accento su ciò che non avvenne. «Winston Churchill, annunciando la creazione della Brigata, aveva anche detto che quando la guerra sarebbe finita la brigata ebraica avrebbe marciato trionfalmente a Berlino. Ma ciò non avvenne – ha spiegato -. Anzi: i soldati furono mandati in Belgio e nei Paesi Bassi. Perché?».
I motivi, secondo la storica, sono rintracciabili nelle tre attività principali in cui erano impegnati dopo la guerra: attività di vendetta su tedeschi e austriaci (attuate da gruppi sparuti), cura dei sopravvissuti (che diventò presto la priorità) e cooperazione con gli ebrei italiani.
Vendicarsi contro gli aguzzini
“Grazie a delle informazioni dell’intelligence locali, furono ritrovati e uccisi 150-200 nazisti “giudicati dal popolo ebraico” – come veniva detto loro prima dell’esecuzione – spiega Porat -. Ovviamente queste azioni non piacquero né ai comandanti della brigata ebraica né tantomeno all’esercito inglese sotto la cui bandiera operavano questi soldati, che capì perfettamente che non si poteva farli marciare a Berlino. E per questo furono inviati in Belgio e Olanda”.
In realtà questi furono però dei casi limitati: nonostante tutto ciò che avvenne durante la Shoah gli ebrei non cercarono vendetta, ma anzi la generale convinzione dei sopravvissuti e dei leader in Israele era vendicandosi sarebbero diventati come i nazisti, che uccidevano senza giustizia. “Non ci fu una decisione formale della leadership fra i sopravvissuti e in Israele di fare altrimenti ma intuitivamente lo fecero – spiega Porat –. La vendetta più grande fu creare una nuova famiglia, costruire nuove comunità ebraiche: vendicarsi, insomma, con la vita”.
Il sostegno ai sopravvissuti
Il secondo fronte su cui la Brigata Ebraica fu particolarmente attiva fu il sostegno e la cura dei sopravvissuti: rubando tutto ciò che potevano dall’esercito britannico, si occupavano dei sopravvissuti che arrivavano in Italia per andare in Palestina. “Anche questo non piacque ai britannici, che non volevano che una massiccia emigrazione ebraica creasse dei problemi con la popolazione araba. Per questo da Tarvisio furono mandati in Paesi più a nord, dove non c’erano sopravvissuti che arrivavano che potessero poi partire in Israele”.
Le relazioni con gli ebrei locali
Infine, un altro aspetto interessante dell’attività della Brigata ebraica in Italia furono i rapporti che crearono con le comunità ebraiche locali. Molto intenso è il ricordo dell’ingresso di soldati ebrei dell’esercito britannico nella sinagoga di Roma, nel giugno del 1944. “Era la prima volta che gli ebrei italiani vedevano dei soldati ebrei venuti dalla Terra di Israele – spiega Porat -. Fu un momento estremamente emozionante, ricordato in tutti i memoirs dell’epoca”.
Diversi gli obiettivi di queste attività: trovare gli ebrei che si erano nascosti e portarli a casa; aiutarli, dopo la sofferenza e le privazioni (sempre rubando all’esercito inglese); combattere l’assimilazione e la conversione, dando un’educazione sionista e insegnando l’ebraico.
“In tutto ciò gli ebrei italiani non furono un pubblico passivo, ma assunsero un ruolo attivo e di supporto agli altri per ricostruire le comunità. Già durante la guerra, gli ebrei italiani che si unirono ai partigiani contribuirono alla creazione di un accordo con la brigata ebraica per collaborare nella ricerca di altri ebrei e per aiutarli con documenti falsi. In cambio i partigiani ottenevano dalla Brigata ebraica molti aiuti”.
Fra gli italiani ebrei che diedero un contributo fondamentale si ricordano Raffaele Cantoni, Sally Mayer e Alfredo Sarano. “Un anno dopo la fine della guerra si era creato un triangolo di cooperazione e aiuti composto da Brigata Ebraica, sopravvissuti ed ebrei italiani. L’obiettivo era ricostruirsi una vita”.
La scelta della vita
La parola è poi passata a Rav Alfonso Arbib che ha spiegato come «l’esperienza della brigata ebraica è l’espressione concreta del principio ebraico fondamentale espresso nella Parashà di Kedoshim: “Non stare inerte davanti al sangue del tuo prossimo”. In questo caso, però, lo si fa scegliendo di prendere le armi e combattere». È questo particolare aspetto, secondo Rav Arbib, a rendere la Brigata ebraica non solo un episodio della storia ebraica, ma anche una parte integrante del sionismo. «Per un migliaio di anni gli ebrei hanno combattuto poco perché erano una minoranza perseguitata – ha spiegato -. Con il sionismo, l’obiettivo diventa creare un nuovo tipo di ebreo che reagisce anche con le armi, senza subire».
Infine, per concludere, Rav Arbib ha citato un racconto che gli fece sua madre. «In Libia, da dive provengo, nel 1945ci fu un enorme pogrom contro gli ebrei, in cui morirono in centinaia. Fu ripetuto poi nel 1948, ma ci furono molti meno morti, perché gli ebrei si erano difesi. I soldati ebrei li avevano addestrati dal 1945 al 1948 a difendersi. Era cambiata la storia».
Una nuova prospettiva di vita
Gadi Luzzatto Voghera, direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, ha infine messo l’accento sull’importanza della Brigata ebraica sulla rinascita dell’ebraismo italiano. «Dopo le leggi razziali e il crollo dell’emancipazione da poco conquistata dagli ebrei, nonché per molti dell’illusione della bontà del fascismo, il pessimismo pervase la realtà ebraica italiana – ha spiegato -. Durante le persecuzioni ci si rese conto dell’errore di interpretazione delle comunità ebraiche del regime fascista, visto da molti come estrema frontiera di un risorgimento nazionale italiano. L’ondata di pessimismo poteva generare la fine dell’ebraismo, ma ciò non avvenne grazie anche all’apporto della brigata ebraica, che portò ottimismo e una prospettiva di vita».
Un’attenzione particolare fu data ai giovani, da educare con un nuovo concetto di ebraismo inteso non solo come religione ma anche come dimensione culturale. Furono quindi create le colonie di Piazzatorre (che trent’anni dopo avrebbe accolto i campeggi dell’Hashomer Hatzair), e, poi, di Selvino, dove centinaia di ragazzi ebrei sopravvissuti poterono tornare alla vita.
«Oggi studiare la storia della brigata ebraica è il primo passo per scardinare le urla che ogni anno, durante il corteo del 25 aprile, si ripetono contro un simbolo equivocato e proiettato in altre dimensioni false e che producono una strumentalizzazione che non possiamo accettare».