luna piena

“Con lo sguardo alla luna”: l’importanza della luna nell’ebraismo

Personaggi e Storie

di Fiona Diwan

Che cosa vuol dire vivere con lo sguardo rivolto alla luna? Che significa fare della luce lattiginosa dell’astro notturno la dimensione esistenziale propria dell’ebraismo e dell’essere ebreo? «Sia l’uomo che la luna sono soggetti alla legge del divenire, a momenti in cui si cresce, si cala, si sparisce, si rinasce. Da sempre, il rinnovarsi dell’astro notturno è il simbolo di un rinnovamento spirituale e psicologico. Perciò, la dimensione ebraica ci insegna a diffidare del dominio esclusivo del sole, della sua immagine trionfale amata da molte grandi civiltà adoratrici dell’astro diurno. L’immagine della luna ci rinvia invece a una dimensione di incompiutezza, di carenza, la sua fisionomia non è mai uguale a se stessa: il suo segreto è fare della propria incompletezza una forza, e per questo la luna fonda l’identità di Israele. Rimanda all’umiltà, alla disarmonia del creato, all’imperfezione, concetti questi che non potevano essere accolti dall’etica e dal pensiero del mondo greco che faceva della perfezione fisica e della compiutezza intellettuale i più alti valori dell’umanità».

Così scrive rav Roberto Della Rocca, 55 anni, direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’Ucei, direttore scientifico del Festival Jewish and the city”di Milano, in uno stimolante libro appena uscito, Con lo sguardo alla luna – Percorsi di pensiero ebraico (Giuntina, 15 euro, disegni di Stefano Levi della Torre), un’agile e approfondita raccolta di saggi brevi, una cavalcata filosofica nei grandi temi del pensiero della tradizione; 200 pagine piene di spunti, racconti e riflessioni che sanno unire un approccio verticale alla facilità di lettura. Parlare con Della Rocca vuol dire ascoltare un fuoco d’artificio di citazioni della Torah, parabole, commenti di talmudisti ma anche attenzione all’attualità.

La copertina dle libro 'Con lo sguardo alla luna'«La luna ci fa luce nel buio quando l’oscurità diventa più fitta e angosciante. La sua luce ci orienta e noi oggi non stiamo forse vivendo un grave momento di angoscia sociale e esistenziale? La luna è un archetipo etico, simbolo del divenire e della trasformazione. Ma ciascuno di noi, come la luna, è frutto di una luce riflessa: quella del proprio Maestro, di un coniuge, di un genitore. Siamo tutti fatti di un chiarore riflesso, alla ricerca della nostra propria luce. Ecco perché è così importante saper guardare alla luna e non solo al dito che la indica. (Ma anche il dito non va del tutto trascurato: perchè come il Maestro ti indica e ti avvicina alla Torà, così il dito ti fa alzare lo sguardo verso il cielo)».
Roberto Della Rocca ci prende per mano per portarci nel cuore delle letture midrashiche. Nel suo libro troviamo i Patriarchi e la rivalità tra Esaù e Giacobbe che, secondo un Midrash, simboleggiano proprio il sole e la luna. Ci sono la regina Ester e c’è Amalek e la disamina del senso profondo che questo nemico ha per il popolo d’Israele; c’è l’analisi del Qohelet e della figura di Moshè, con la sua meravigliosa capacità di non essere ingombrante, Moshè immagine della riconoscenza, implacabile gladiatore contro l’idolatria. Importante anche il capitolo dedicato a Giona. «Amo molto questo profeta, il più riluttante di tutti, -spiega Della Rocca-. E’ colui che deve imparare a stare dentro e fuori alla pancia del pesce per capire che l’amore per il suo popolo, quello ebraico, non può essere vissuto a discapito degli altri popoli, in questo caso gli abitanti di Ninive, votati alla distruzione per i troppi peccati. Ma Giona non ne vuole sapere di ammonirli, pensa solo a scappare e sceglie di imbarcarsi, e il mare è la dimensione del perdersi. Quella di Giona è la storia della dialettica eterna tra il particolare e l’universale. Leggiamo il libro di Giona a Kippur perché non c’è teshuvà individuale se non si lavora per una teshuvà collettiva, perchè il nostro destino individuale è indissolubile da quello collettivo».

Molto bella anche la terza parte del libro, quella dedicata all’etica: c’è l’identità ebraica a partire dal Lech lechà di Avraham; il significato dello Shemà e della pedagogia ebraica; la polarità uomo-donna e la dialettica duale dell’essere coppia; i rapporti e le contraddizioni tra Amore e Giustizia. E ancora: i due comandamenti di shamor ve zachor, osserva e ricorda; il tempo del calendario ebraico che si dipana su una base ellittica e circolare, con un movimento a spirale e non invece in linea retta – è il ripetersi di rashè chodashim, i capimese -. Un libro rivolto sia al mondo ebraico che a quello esterno e più vasto di chi ama farsi sedurre dalle letture bibliche. «Per molto tempo ho fuggito la fissità della parola scritta e mi identifico da sempre con la tradizione orale che insegna che la Torà deve stare sempre “sulla bocca”, per evitare che si cristallizzi. Tuttavia, è vero che la parola scritta racchiusa in un libro può più facilmente raggiungere persone lontane. E canalizzare meglio una certa mia passionalità. In questi ultimi anni, ho sentito -anche nel mondo ebraico più colto e specialistico -, una certa assenza di stimoli esistenziali o di riflessione generale. Questo libro è un campionario dei tanti modi possibili di articolare i rapporti tra pensiero ebraico e tradizione filosofica occidentale, con temi comuni a entrambi. Una delle forze dell’ebraismo europeo è stata il saper attingere dal mondo esterno restando sempre se stesso, ma capace di fornire risposte nuove. Assimilare il mondo circostante senza assimilarsi ad esso: ed essere una minoranza che lotta affinchè possano esistere altre culture di minoranza, – spiega il rav.

Un libro pensato come risposta alla ferita inguaribile della Shoah. «Per non adagiarci sul pianto e sul dolore. E per rendere più solida la catena tra le generazioni di una famiglia di sopravvissuti alla Shoah (mio nonno Rubino della Rocca è stato ucciso dai nazisti durante una marcia di evacuazione da Auschwitz nel febbraio 1945), e legarla alla generazione della rinascita, quella dei miei figli, che guarda a Israele e che si ispira alla Torà come a un modello. Mi sento un traghettatore; faccio parte della generazione del deserto: ho dietro la Shoah, davanti l’evidenza dello stato d’Israele. Io sto nel mezzo».
Esiste un orrore nell’orrore della Shoah. È l’idea che l’ebreo sia solo una vittima. «Come possiamo evitare che la Shoah si trasformi in una scorciatoia identitaria? Come può una Memoria essere educativa? Sono sempre stato insofferente nei confronti di estremismi di ogni genere, soprattutto quelli camuffati da illuminismi di facciata: ho scritto questo libro anche contro le etichette, i luoghi comuni, i clichè preconfezionati. Dobbiamo uscire dalla comfort-zone delle “idee ricevute” e dal radicalismo di maniera.

Ho scritto per sconfiggere una certa idea di ebraismo come catechismo, come tecnicismo halachico solo per devoti: volevo smontare questa idea riduttiva e limitativa e mostrare invece la forza propulsiva dell’ebraismo nella nostra vita quotidiana, il suo dirompente valore per la costruzione di una dimensione interiore fatta di pienezza. Lo studio della Torà può essere terapeutico, ha un potere di guarigione e a volte può funzionare meglio di cento sedute di psicoterapia, lo sapevate?»