di Ilaria Myr
I tagli agli investimenti. Il precariato fra i docenti. L’uso “politico” che molti fanno della Storia (e il rischio di politicizzazione).
E infine, l’incapacità di “raccontare” il passato in modo vivo e attuale, usando nuovi linguaggi… L’opinione dello storico Elia Rosati
L’eliminazione del tema di storia alla maturità è solo l’ultimo episodio di un processo più lungo di perdita di importanza di questa materia, non solo in ambito scolastico. Un disinteresse crescente che si concretizza su più fronti.
«Il primo ambito in cui ciò è evidente è sicuramente quello degli archivi – spiega lo storico Elia Rosati -. Da tempo, ormai, c’è un generale disinvestimento da parte delle istituzioni pubbliche nei confronti di queste realtà, fondamentali per il lavoro dello storico: molti sono stati chiusi o accorpati, e per quelli ancora esistenti mancano i soldi per il mantenimento e la digitalizzazione. Questo è senza dubbio un primo attacco al mestiere dello storico, che nasce dalla convinzione che investire sugli archivi sia una spesa inutile».
A questo si aggiungano i tagli draconiani alle università e alla complessiva ristrutturazione del sistema scolastico che hanno caratterizzato gli ultimi 20 anni, con più di quattro riforme complessive fatte dai diversi governi che via via si sono succeduti. «Da sempre la scuola è terreno dello scontro politico, ma questo si è accentuato negli ultimi due decenni – continua Rosati -, con un conseguente indebolimento della memoria storica civile di questo Paese. Un lasso di tempo troppo breve per una riorganizzazione così drastica, che ha creato degli squilibri nella qualità dell’insegnamento, della preparazione dei ragazzi e della ricerca. Si pensi, ad esempio, a che effetti ha avuto per alcuni ragazzi avere iniziato il liceo con una Riforma e averlo finito con un’altra… Alla disattenzione al piano infrastrutturale e didattico si sono dunque aggiunte l’incapacità e la miopia della classe dirigente».
Anche il mondo accademico, però, in questo processo ha le sue colpe. «L’arroganza eccessiva di essere gli unici detentori del sapere storico – insieme alla distanza generazionale per molti dei docenti – nella convinzione che “solo gli storici possono parlare di storia”, ha fatto sì che venisse sottovalutato l’inevitabile impatto delle nuove tecnologie sulla circolazione e condivisione di massa di questi contenuti. Continuare a mantenere un sistema di divulgazione tarato esclusivamente sulla saggistica – ad alto costo e spesso fruibile da un pubblico ristretto -, chiudendosi alle possibilità di internet e a forme narrative più dirette, è un errore, perché le persone, e soprattutto i giovani, cercano le risposte dove trovano le domande. E internet è il luogo per eccellenza».
Ma come impatta tutto ciò sul mondo scolastico? E in particolare sulle classi quinte del liceo, che da quest’anno si sono trovate senza Storia da portare all’esame di Maturità?
«Innanzitutto le ore di Storia sono spesso compattate con altre discipline, e quindi le viene dedicato meno tempo – spiega Rosati -. Inoltre, per quella “politicizzazione” della Storia di cui si diceva, si assiste sempre di più alla tendenza degli insegnanti di considerare alcuni capitoli della storia contemporanea come argomenti politici, da non trattare in classe per non influenzare e “indottrinare” i ragazzi. Mentre si dovrebbe invece educarli a confrontarsi con le diverse posizioni e a sviluppare un proprio pensiero critico». Con esiti estremi come il caso della professoressa siciliana che era stata sospesa dall’incarico perché durante un lavoro sulle Leggi razziali gli studenti avevano chiamato in causa le leggi sull’immigrazione varate dall’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini… E poi c’è l’eliminazione della Storia dalla Maturità voluta dal Ministro dell’Istruzione Marco Bussetti. «Che i ragazzi spesso trovino la Storia noiosa è un dato di fatto che è sempre esistito – commenta -, ma che questa iniziativa sia stata presa dall’alto, per di più da un Ministro della Repubblica, è ancora più grave e preoccupante». A tutto ciò si aggiunge il precariato che attanaglia ormai da anni il nostro sistema scolastico e che rende più complicato strutturare i programmi da sviluppare con i ragazzi: solo quest’anno dovevano arrivare nelle scuole 76.000 giovani docenti precari, bloccati dalla mancanza di decreti di stabilizzazione, in molti casi con una formazione molto più specializzata di quella dei colleghi più anziani. Non tutto però è perduto. «La Scuola ha molte più risorse di quello che si pensi. Le risorse ci sono, e spesso molto preparate. Si tratta di aspettare il momento in cui la politica si renderà conto che sbloccare questa situazione assurda è una priorità per il futuro dei ragazzi e del nostro Paese».