di Ilaria Ester Ramazzotti
La “domanda di storia” da parte del grande pubblico è una sfida per gli storici. Si deve uscire dalle università per intervenire sui contenuti della comunicazione storica multimediale, in modo da evitare il rischio di semplificazioni e inesattezze, o di vere manipolazioni, “riscritture” false e piene di menzogne
Valeria Galimi insegna Storia contemporanea all’Università di Firenze. È autrice del volume Sotto gli occhi di tutti. La società italiana e le persecuzioni contro gli ebrei (Firenze, Le Monnier, 2018) nel quale affronta il tema del modo in cui la società italiana ha reagito di fronte alle persecuzioni contro gli ebrei. Le ha approvate o contrastate, o si è mostrata indifferente? Come sono cambiate le opinioni e i comportamenti degli italiani nel momento degli arresti e delle deportazioni, dopo il 1943? Qual è il ricordo di questi avvenimenti e in che modo è cambiato il rapporto fra italiani e memoria della Shoah? Alla giovane storica abbiamo chiesto quale sia oggi il valore dello studio della sua materia, nella società contemporanea.
Considerando che fantasmi del Novecento sembrano tornare indisturbati, fra revisionismo, negazionismo e fake news, qual è oggi il ruolo dello storico?
Si è molto parlato nei mesi scorsi del ruolo sempre più marginale della Storia nel tempo presente, a partire dalla discussione sorta dopo l’abolizione del tema di storia dall’Esame di Stato e dall’appello promosso, fra gli altri, dalla senatrice Liliana Segre. Quello che si deve rilevare è un più ampio ridimensionamento del ruolo della Storia nel percorso scolastico, con una diminuzione di ore di insegnamento, che rende praticamente impossibile per un insegnante riuscire a formare gli studenti al senso del passato, attraverso un metodo di studio e di riflessione critica. Per questo motivo credo che gli storici, oggi più che mai, debbano interrogarsi sul proprio ruolo nella società, ponendosi l’obiettivo di non parlare solo alla comunità scientifica, ma di rivolgersi, con un linguaggio chiaro e accessibile, al grande pubblico. In molte occasioni, infatti, possiamo vedere che su temi di discussione pubblica (ad esempio la persecuzione degli ebrei, le foibe, la violenza coloniale) i risultati della ricerca storica, ormai acquisiti da anni, non sono conosciuti ancora dall’opinione pubblica, che è quindi più soggetta alle manipolazioni, alle inesattezze, se non a vere e proprie menzogne.
In un momento in cui la modalità di trasmissione della Storia è sempre più basata sulla “semplificazione” attraverso serie tv e libri di successo, come la si può trasmettere in modo più proficuo ai giovani?
Osservando comunemente il successo di un fenomeno come la Public History, una definizione di origine anglossassone che va a definire, in sintesi, un insieme di pratiche del fare storia offerta fuori dalle università, è possibile sostenere che oggi c’è molta “domanda” di storia. È certamente vero che serie tv o libri di successo (si pensi ad esempio al premio Strega di quest’anno, il romanzo storico M di Antonio Scurati su Mussolini), – ma se vogliamo anche videogiochi a carattere storico o in generale i canali tematici di storia – mostrano la presenza di un interesse vivace per questa disciplina. Ma non sempre, insieme all’obiettivo di intrattenere il pubblico, questi “prodotti storici” hanno finalità di conoscenza storica, o trasmettono contenuti corretti. Gli esempi potrebbero essere molti e non mi dilungo.
Gli storici, nondimeno, non devono limitarsi a segnalare errori e omissioni, pure importanti, ma cogliere l’occasione di questo interesse per il passato, per misurarsi, oltre che con il libro “tradizionale”, anche con nuovi linguaggi di comunicazione e trasmissione della Storia. Anche qui gli esempi positivi non mancano (sia in ambito didattico sia per il grande pubblico, ad esempio per quanto riguarda mostre e musei a carattere storico) e indicano che percorrere questa strada è possibile.