di David Zebuloni
Il coraggio di vivere. In esclusiva per Bet Magazine parla la scrittrice israeliana scampata ad Auschwitz, che disse no alla presenza di CasaPound-Altaforte al Salone del Libro di Torino. Intervista a Halina Birenbaum
«Io ho sempre raccontato. Dal giorno che sono uscita da Auschwitz ho raccontato ciò che mi era accaduto, ciò che i miei occhi avevano visto. Quando incontrai mio fratello dopo la guerra, provai a raccontargli della prigionia, ma lui non volle sentirmi. Mi gridò che dovevo stare zitta, che tutto ciò non era possibile. Mio fratello, capisci? La persona più vicina a me non aveva intenzione di ascoltarmi. Ma io non smisi per un attimo di raccontare». Halina Birenbaum, nata a Varsavia nel 1929, sopravvissuta a quattro campi di concentramento – Majdanek, Auschwitz, Ravensbruck e Neustadt-Glewe -, mi accoglie nel salotto di casa sua, a Herzelyia. Appisolato sulla poltrona, un enorme gatto dal pelo grigio. Confesso imbarazzato ad Halina di avere paura dei gatti sin da quando ero bambino e lei, alzando il pugno destro, mi rassicura: «tranquillo, ti difendo io». Quel pugno l’ho visto poi sventolare a mezz’aria numerose volte durante l’intervista. «Uscita dai campi, non riuscivo a smettere di meravigliarmi, persino delle cose più semplici. Abituata ormai a combattere per un centimetro di pagliericcio su cui appoggiare la testa, gridavo alla vista di un letto vero su cui dormire». All’età di novant’anni, Halina non smette di meravigliarsi.
Mi racconta di un ragazzo di Johannesburg che l’ha contattata la sera prima su Facebook per dirle che il suo libro gli ha cambiato la vita e che desidera incontrarla. «Pensa che sono trascorsi più di cinquant’anni da quando pubblicai quel libro, in Polonia. L’editore non credeva che avrebbe venduto abbastanza e mi costrinse a investire tutti i miei risparmi». Il libro in questione, Hope is the last to die (La speranza è l’ultima a morire), venne pubblicato nel 1967 e fa parte della raccolta dei dieci libri più importanti sul tema dell’Olocausto che viene venduto nel museo di Auschwitz, insieme a Se questo è un uomo di Primo Levi e La notte di Elie Wiesel. «Sentii l’impulso di scrivere la mia storia dopo il Processo Eichmann. Seguii tutto il processo, trascorrevo le giornate incollata alla radio per ascoltare le testimonianze, per vedere se mi riconoscevo nei loro racconti. Ma ciò non accadde. Si parlò soltanto di morte e di sterminio, nessuno raccontò della speranza di sopravvivere che tutti noi nutrivamo, dell’enorme attaccamento alla vita. Nessuno raccontò di quando cedetti il mio pezzo di pane ad una prigioniera morente, o quando mia madre mi sorrise per l’ultima volta e mi disse: “Halina mia, tutti gli uomini sono destinati a morire. Non aver paura, lo faremo insieme”. Nessuno raccontò questi frammenti di vita, di compassione, di amore. Allora lo feci io».
Mi domando e le domando come si facciano a riconoscere questi punti di luce nel buio più totale di Auschwitz. «Nonostante tutto eravamo ancora umani, ecco la verità, altrimenti nessuno di noi sarebbe sopravvissuto», mi risponde Halina, il pugno alzato. «Questa è una lezione di proporzioni. Ciò che per voi sembra nulla, per noi significava un altro giorno di vita, un’altra ragione per andare avanti.»
ISRAELE E IL RIFIUTO
Gli anni successivi alla guerra furono duri e sofferti. L’immigrazione in Israele e le guerre che ne conseguirono furono traumatiche. Halina fu accolta in Kibbutz con disprezzo. Venne condannata per non essersi ribellata, per non aver reagito, per non essersi opposta al regime nazista. «Pensi che il rapporto che gli israeliani hanno con la Shoah sia cambiato nel tempo? Pensi che oggi gli israeliani siano fieri della loro storia?», le domando. Halina ci pensa un attimo, lo sguardo deciso. «Fieri non direi. Beh, forse i più giovani, che visitano Auschwitz con la bandiera di Israele legata al collo. Ma l’educazione israeliana rimane sempre la stessa. Qui insegnano che non bisogna dare troppo spazio alle emozioni, che bisogna essere forti perché il pericolo di essere sterminati ancora esiste e bisogna combatterlo. In un paese in cui il terrorismo agisce con tanta violenza, si deve vivere l’attimo o guardare il futuro, non ci si può guardare alle spalle. Però non ti nego che ogni tanto provo il forte desiderio di alzare la manica e far vedere il numero che porto marchiato sul braccio. Sì, è la verità, vorrei che gli israeliani portassero più rispetto a chi ha sofferto, che fossero più empatici con noi».
LA LETTERA DI YAD VASHEM
Nel ‘67, dopo aver pubblicato il suo primo libro, Halina ricevette una lettera inaspettata da Yad Vashem. «Mi scrissero che mi ero venduta all’editore polacco, che i contenuti del mio libro erano sbagliati, che era impensabile che io condannassi la polizia ebraica del Ghetto di Varsavia e non quella polacca». Cerco di capire se in lei viva un rimorso. «No no no! Ciò che a Yad Vashem non capivano è che io ero solamente una bambina all’epoca, non sapevo nemmeno cosa fosse la polizia polacca. Io mi limitavo a vedere e capire ciò che mi circondava, e ciò che mi circondava è ciò che poi ho scritto nel mio libro, nulla di più».
Da allora Halina ha scritto altri tre libri in prosa e tre libri di poesie, tradotti in più di dieci lingue. «Hai scritto così tanto nella tua vita Halina, qual è il tuo insegnamento più importante?». Halina abbassa il pugno e sorride, il gatto sulla poltrona si stiracchia. «Guardate l’uomo, sempre, guardategli il viso: scoprirete la bontà di cui egli è capace. Ad Auschwitz una prigioniera a me sconosciuta mi regalò una cipolla, ricordo che per un attimo fui la persona più felice del mondo, dimenticai le casacche a righe e le camere a gas e i forni crematori e il lavoro forzato. Una sconosciuta mi aveva regalato una cipolla senza motivo, tutto il resto poteva aspettare. Ecco, voglio che vediate la luce nel buio, sempre. Io non sono solo sopravvissuta ai campi, io mi sono salvata».
AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO
Nel maggio 2019, Halina ha fatto parlare di sé tutti i giornali italiani. Invitata al Salone Internazionale del Libro di Torino per inaugurare l’evento e presentare il suo ultimo libro La forza di vivere, la superstite ha dichiarato che non si sarebbe presentata se non avessero lasciato fuori dalle porte l’editore Altaforte, indagato il giorno prima per apologia di fascismo.
«Mi hanno accusata dicendo che manco di democrazia. Vengono a parlare di democrazia a me? A me? Vergogna! Quegli uomini meritano di finire in galera e vengono ad insegnare a me cosa sia la democrazia! Alla fine però ho vinto io. Persino il Presidente della Repubblica è venuto ad abbracciarmi, ho una foto insieme a lui da qualche parte. Queste sono le piccole cose che aggiungono sapore alla vita. E quando la vita ha sapore, vale la pena accettare anche le sue sofferenze.»