di Angelo Pezzana
[La domanda scomoda]
L’eliminazione del generale Soleimani, oltre ad aver privato il regime degli ayatollah del massimo responsabile della politica di espansione/invasione dell’Iran nella regione – che gli era valsa la qualifica di “macellaio”, meritata anche per la violenta repressione di qualsiasi forma di dissenso popolare -, ha costretto le nostre caute e ambigue democrazie occidentali a fare i conti con il vero Iran, quello che era uscito vincitore dopo l’accordo del 2015 voluto da Obama e dalla politica estera dell’Unione europea guidata da Federica Mogherini.
Indimenticabili i loro sorrisi mentre firmavano la resa che avrebbe consentito all’Iran di entrare in possesso dell’arma nucleare. Il coro unanime europeo inneggiava incosciente, ci voleva un cambio di presidente Usa per smascherare il progetto degli ayatollah. Ma il gioco delle tre carte poteva continuare ancora, i media occidentali erano troppo occupati a criticare Donald Trump per accorgersi dell’ombra minacciosa che stava calando sul Medioriente sotto gli ordini di un generale che non aveva mai destato alcun interesse nei nostri “esperti”. Non era così per Washington, l’uscita dall’accordo non era sufficiente: l’Iran aveva continuato ad arricchire uranio per le proprie centrali, per cui entro breve tempo sarebbe entrato in possesso dell’arma nucleare.
Altroché “decisione emotiva”, come è stata giudicata la decisione di Trump, l’eliminazione di Soleimani è stato il segnale della nuova politica americana per fermare la marcia dell’Iran finché si è in tempo. Una politica strategica che aiuterà il coraggioso popolo iraniano a non tollerare più la dittatura degli ayatollah. L’abbattimento “per errore” dell’aereo civile ucraino è la dimostrazione del caos nel quale si trova il regime, sottovalutato anch’esso dai media occidentali.
La scelta di Trump di decapitare un esercito nemico senza alcuna dichiarazione di guerra contiene un altro segnale positivo, a tutti quei movimenti terroristi che minacciano quotidianamente Israele, veri e propri eserciti, come Hezbollah, i cui 130.000 razzi recano la firma di Soleimani, così come gli apparati militari di Hamas a Gaza.
Lo storico Benny Morris, da difensore d’ufficio delle tesi arabo-palestinesi, perse il consenso di cui godeva nella sinistra europea e israeliana, – così mi raccontò nel Duemila quando lo intervistai-, dopo aver cambiato idea e dopo che il bar “Moment” – dove faceva colazione tutte le mattine – fu fatto saltare in aria dai terroristi dell’OLP, uccidendo tutti gli avventori. Quella mattina doveva esserci anche lui, ma era in ritardo. Da allora, la sinistra lo ha dimenticato e la destra lo critica ancora per le sue posizioni del passato. Solo Haaretz, a sinistra, non lo ha dimenticato e ne ha meritoriamente pubblicato una analisi: come Israele dovrebbe comportarsi di fronte alle minacce di guerra, si chiede Morris? Cito questo articolo perché ha molti punti di contatto con la politica espressa da Trump nei confronti dell’Iran, l’impero del male più grande.
Israele – scrive il progressista Benny Morris – dovrebbe dichiarare pubblicamente e con la massima diffusione, che se l’Iran, anche soltanto attraverso i movimenti che controlla, dovesse decidere di attaccare una qualsiasi parte del territorio di Israele, la risposta che riceverà, a distanza di pochi secondi, colpirà le città di Teheran, Isfahan, Shiraz, Bushehr, Natanz, Qom e gli obiettivi nucleari strategici. Il mondo intero prenderà così atto che la responsabilità di una eventuale escalation sarà interamente da addebitare alle decisioni che gli ayatollah prenderanno. Tralascio i particolari, anche se indispensabili, soprattutto quelli che attengono alla difesa di Israele, rimandando alla lettura del testo integrale di Morris (Haaretz 18/8/2019).
Con Trump ha funzionato; mentre tutti temevano una terza guerra mondiale – attribuendone a lui la responsabilità, il risultato gli ha invece dato ragione. Nessuna guerra in vista, nemmeno locale, con l’Iran che finalmente dovrà affrontare il dissenso interno.
Il consiglio di Benny Morris può apparire paradossale, sicuramente lontano da ogni tradizione europea, ma Israele non confina con la Svizzera, per sopravvivere meglio ispirarsi a Washington che a Bruxelles.