di Marina Gersony
Il nuovo romanzo di David Grossman. Una scrittura (quasi) femminile, la storia di tre donne con un passato ferito
“Questa è la storia che riguarda tre donne forti e tutte d’un pezzo. Una ha 90 anni, sua figlia 65 e la nipote 40. È la storia amara di un passato che sta avvelenando le loro vite da decenni fino a quando sarà impossibile continuare a vivere senza confrontarsi con l’accaduto […]. Me l’ha raccontata una signora nel corso di vent’anni fino a quando è morta. Mi ha dato il permesso di scriverla e di ‘immaginarla’ e così ho fatto. È la storia della sua incredibile vita e dell’amore più estremo che io abbia mai sentito”.
(La donna che ha affidato le memorie a Grossman si chiamava Eva. Immaginare e ricreare la sua storia è stata per lui una grande sfida, «perché ha dovuto pensare e
scrivere come una donna»). Con queste parole – che si possono ascoltare “dal vivo” in un video della Mondadori su youtube – David Grossman presenta il suo libro La vita gioca con me uscito lo scorso autunno (pp. 300, euro 21,00).
Ancora una volta il narratore israeliano ci sorprende per la capacità di osservare da una prospettiva diversa se stessi e il mondo circostante; di spaziare da un genere letterario all’altro pur mantenendo una sua personalissima coerenza narrativa: da Israele, amatissima terra di cui coltiva la memoria come culto identitario (è noto per il suo impegno in favore di una soluzione pacifica della questione palestinese) alle indagini emotive e sentimentali che attraversano l’animo umano.
Grossman fa indubbiamente parte di quella genia di narratori capaci di penetrare la complessità dei suoi personaggi e di catturare il lettore: famiglia, amore, identità e passato, tutto si mescola in una narrazione diretta e al contempo ricca di sfumature e contraddizioni; una narrazione che attinge alla storia del suo popolo ma anche a vicende personali strazianti come quella della perdita di un figlio.
La vita gioca con me è una saga femminile che si snoda nel tempo, dove passato, presente e futuro si intrecciano in una vicenda dolorosa e toccante: Vera, Nina e Ghili, nonna, madre e nipote, si riuniscono in occasione del novantesimo compleanno di nonna Vera. La festa è occasione di un confronto che riporterà a galla un passato rimosso o volutamente ignorato. Già, la famiglia, quella mishpacha fonte di gioie e dolori dove ogni singolo membro cerca una sua personale collocazione tra incomprensioni, detto-nondetto e nodi irrisolti che impediscono l’espressione dell’amore che ognuno cela dentro di sé. Come spesso accade quando i rapporti familiari sono saldi e fondamentalmente autentici al di là di come possono apparire. (Tutta la famiglia si è stretta intorno alla nonna, come un corpo che protegge il proprio organo più vulnerabile. Vera appartiene a noi. Nina no. È solo per Vera che siamo disposti ad accettarla. E un’altra cosa: tutta la famiglia ha sempre saputo che la linea di confine tra loro due è incandescente, arroventata […]«in ogni caso non riuscirò mai a capire ciò che è successo tra Vera e Nina quasi sessant’anni fa»).
Per cercare di risolvere i loro conflitti, le tre donne decidono di partire per Goli Otok, un’isola croata che significa Isola Calva, tristemente nota nel secondo dopoguerra quale sede di un campo di concentramento della Jugoslavia destinato a ospitare gli oppositori al regime di Tito.
In quest’isola, nonna Vera passò tre anni terribili. Ed è proprio lì che ha fatto la tragica scelta che ha influenzato le vite di tutte tre le donne fino ad oggi. In una sorta di viaggio metaforico ma di fatto reale tra memoria e dimenticanza, è soprattutto la carismatica Nina a indagare: è lei che vuole sapere, che percepisce il non-espresso tra silenzi e ammissioni; vuole sapere da sua madre cosa era successo davvero in Jugoslavia, perché era stata deportata nel campo di rieducazione sull’isola di Goli Otok abbandonandola all’età di sei anni e mezzo. Vuole sapere da quali dolori è originata la sua storia e quali sono state le ripercussioni di un passato così ingombrante sulle tre generazioni di donne, fino alla nipote Ghili.
«È una storia che parla di una ferita che si propaga di generazione in generazione – osserva Grossman –. È una storia d’amore che sopravvive anche anni dopo che i propri cari sono morti; è una storia di orrore, amore e di grazia come solo le grandi famiglie sanno creare». Già, perché talvolta è la vita che gioca con noi.