di Aldo Baquis, da Tel Aviv
Cambia l’inquilino della Casa Bianca ma Israele vuole confermare il legame inscindibile con gli Stati Uniti. Se molti israeliani avrebbero preferito la rielezione di Trump, grati per l’Ambasciata a Gerusalemme e per gli Accordi di Abramo, gli ebrei americani hanno confermato il sostegno ai democratici. Resta l’incognita del negoziato sul nucleare iraniano che Biden e la sua vice Kamala Harris vogliono riprendere in mano.
Dodici ore molto eloquenti sono trascorse, l’8 novembre, dopo l’annuncio giunto dai grandi network statunitensi della vittoria di Joe Biden, prima che da Gerusalemme giungesse un primo giudizio in merito. I leader occidentali – Merkel, Macron, Johnson e il canadese Trudeau – si erano affrettati a felicitarsi col vincitore. Ma a Gerusalemme Benyamin Netanyahu aveva le mani legate, visto che Donald Trump (che negli ultimi anni era visto da lui quale “il più grande amico dello Stato d’Israele”) non aveva assolutamente accettato la sconfitta e anzi denunciava di essere stato rapinato con mezzi fraudolenti.
D’altra parte il prolungato silenzio del governo israeliano rischiava di essere interpretato dai democratici come un segno di ostilità. Cosicché alla fine Netanyahu si è felicitato con “l’amico Biden”, ma si è guardato bene dal definirlo “Presidente eletto”. Come è noto, l’incarico di primo ministro di Israele è uno dei più difficili al mondo. Giorni dopo, alla Knesset, Netanyahu ha respinto le accuse di quanti lo rimproveravano di aver negli ultimi anni privilegiato i rapporti col partito repubblicano, a scapito di quello democratico. Con Biden, ha ricordato, intrattiene relazioni personali da 40 anni. Ha avuto con lui anche conversazioni col cuore in mano: in occasione della morte del prof. BenZion Netanyahu, suo padre (Biden allora gli fece una lunga telefonata) e poi con la morte del figlio di Biden, Beau (Netanyahu gli partecipò il proprio dolore). “Le nostre relazioni – ha sintetizzato Netanyahu – vanno oltre la politica, vanno oltre la diplomazia”.
Tuttavia i rapporti fra i governi di Netanyahu e l’amministrazione Obama sono stati caratterizzati da crisi ricorrenti e anche da una spiccata antipatia reciproca. Con Trump la Destra israeliana e quella statunitense si erano fuse quasi alla perfezione, grazie anche all’impegno dei rispettivi ambasciatori: l’israeliano Ron Dermer a Washington e lo statunitense David Friedman a Gerusalemme, attivi anche nella politica interna dello Stato che li ospitava. Significativa ad esempio la coesione fra il movimento dei coloni e le Chiese evangeliche Usa. È accaduto così che alla vigilia delle presidenziali il 70 per cento degli israeliani auspicava una rielezione di Trump, come ringraziamento per lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, per il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan e della legittimità degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e anche per i sensazionali “Accordi di Abramo” con Emirati arabi uniti, Bahrein e Sudan.
Invece gli ebrei statunitensi sono rimasti, in larga maggioranza, fedeli al partito democratico e agli ideali “liberal”. La frattura fra Israele e il mondo ebraico statunitense desta preoccupazione e adesso occorrerà ricucirla.
GLI “ACCORDI DI ABRAMO”
Fra ottobre e novembre la Knesset è stata convocata due volte per ratificare gli accordi di pace con gli Emirati e con il Bahrein, mentre delegazioni ufficiali di Israele si sono recate anche nel Sudan per stringere accordi di cooperazione. Nell’ottica di Netanyahu la politica di Trump ha sconfitto definitivamente le tesi della sinistra (anche americana) secondo cui Israele non avrebbe potuto normalizzare le relazioni con Paesi della Regione se prima non avesse fatto concessioni ai palestinesi. “Abbiamo rotto quel veto. Se non lo avessimo fatto, avremmo dovuto attendere ancora per anni”, ha spiegato al Parlamento. I democratici Usa continuano invece a ritenere un errore aver tenuto in disparte i palestinesi (i negoziati diretti israelo-palestinesi si sono interrotti nel 2014) e Kamala Harris, nelle prime interviste rilasciate come vicepresidente, ha anticipato che è intenzione della nuova amministrazione Biden riaprire gli uffici dell’Olp a Washington; ripristinare gli aiuti umanitari usa all’Autorità nazionale palestinese; riattivare come entità separata il consolato usa di Gerusalemme est (era stato inglobato da Trump nella nuova ambasciata); occuparsi della situazione umanitaria a Gaza.
Harris ha anche precisato che si oppone all’estensione delle colonie e ai progetti di annessione ad Israele di parti della Cisgiordania (che rientrano nel piano Trump). Tuttavia Biden e la sua vice Kamala Harris hanno salutato con favore gli “Accordi di Abramo” e presumibilmente daranno loro chance di successo. In particolare Trump ha appena annunciato una importante fornitura di aerei da combattimento F 35 per gli Emirati: si tratta di una importante boccata di ossigeno per l’industria bellica statunitense. La sensazione in Israele è che nei primi mesi Biden dovrà comunque concentrarsi sulle questioni interne (Covid, vaccini, tensioni sociali ed economia) e che passeranno almeno sei mesi prima che il suo staff elabori una nuova politica mediorientale. Inoltre il partito repubblicano mantiene sempre posizioni di forza nel Senato. Dunque Israele avrà modo anche in futuro di far sentire la propria voce a Washington, e di rappresentare le proprie necessità.
IL NUCLEARE IRANIANO
Israele, più di molti altri Paesi al mondo, ha sostenuto a spada tratta l’applicazione all’Iran di rigide sanzioni economiche volute da Trump e dal segretario di Stato Mike Pompeo. L’obiettivo era di mettere in ginocchio l’economia iraniana per indurre gli ayatollah a fare concessioni sui loro programmi nucleari e missilistici. Più volte Trump e Netanyahu si sono trovati da soli di fronte alle grandi potenze, come Cina, Russia, Germania, Francia.
Secondo Biden, l’uscita degli Stati Uniti dagli accordi delle grandi potenze sul nucleare iraniano (Jcpoa) è stata un errore. Fin d’ora è chiaro che l’amministrazione Biden cercherà di riattivare il dialogo con Teheran, malgrado lo scetticismo di Israele. Anche se non nell’immediato, su questo fronte è prevedibile che ci saranno nuove tensioni fra Gerusalemme e Washington anche se va detto che lo stesso Trump aveva lasciato intendere che, se rieletto, avrebbe anch’egli voluto verificare la disponibilità iraniana a nuove intese. Nel frattempo però nella Regione si è creata una nuova realtà. In passato era in particolare Israele ad avvertire l’opinione pubblica internazionale della minaccia iraniana di destabilizzazione della Regione. Adesso alla sua voce si uniscono anche quelle eloquenti degli Emirati, del Bahrein e dell’Arabia Saudita.
Nella Regione si stanno formando nuove alleanze di cui anche la nuova amministrazione dovrà tenere conto. Nel suo discorso alla Knesset, Netanyahu ha tenuto a precisare di non aver alcuna ostilità preconcetta verso il partito democratico. Ma al tempo stesso ha chiarito di essere pronto a difendere ad oltranza le posizioni di Israele. In passato, ha ricordato, Israele lo ha fatto sia contro il parere di amministrazioni repubblicane sia di fronte ad amministrazioni democratiche. Netanyahu è più che certo che col suo “vecchio amico Joe” riuscirà a trovare terreni di intesa.