di Nathan Greppi
Il cosiddetto hate speech è diventato un tema sempre più discusso negli ultimi anni, poiché ritenuto in grado di condizionare non solo i singoli individui, ma la collettività e la politica di interi paesi. Di questo si è parlato mercoledì 9 dicembre in un dibattito intitolato Discorsi d’odio online, organizzato sulla piattaforma Webex dall’Osservatorio Mediavox dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, che si occupa di ricerche sulle relazioni interculturali e sull’odio telematico.
Dopo i saluti introduttivi, l’incontro è stato moderato da Don Mimmo Beneventi, membro dell’ufficio comunicazioni sociali della CEI. Il primo relatore è stato Milena Santerini, ordinario di Pedagogia alla Cattolica, che tramite una serie di slide ha fornito un quadro generale della questione: “La rete è ambivalente, nata come il sogno di un mondo connesso,” ha spiegato. “Ma sappiamo anche che forse di queste utopie non si sono calcolati tutti gli effetti. Oggi sappiamo che la rete ha anche un lato oscuro” Ha aggiunto che non bisogna cadere nello scontro “tra chi esalta la rete e chi la denigra, bisogna sapere gestire le relazioni online. Un altro rischio del web è che quando si denuncia ciò che avviene si rischia di fare il gioco degli odiatori, di diffonderli ancora di più.”
Ha spiegato che spesso non riescono a dare un’identità chiara all’odio online, “perché lo stesso termine ‘odio’ è ambiguo: che cos’è l’odio? Un sentimento? Un atteggiamento? Un’azione? O tutte queste cose? Non abbiamo una definizione univoca. C’è piuttosto uno spettro di tratti che possono identificarlo.” Altro tema molto sentito, nel suo intervento, è stato quello della libertà d’espressione: “Essa è una grande conquista, perché è alla base di una società civile. Ma può anche essere dannosa, perché erode la dignità delle vittime, e quindi, quando colpisce l’uguaglianza, la libertà può subire restrizioni. Occorre fare un bilanciamento tra la libertà d’espressione e il diritto a non essere discriminati.”
Su quali caratteristiche della rete diffondono l’odio si è soffermato Stefano Pasta, giornalista di Famiglia Cristiana e ricercatore alla Cattolica: “Una prima premessa da fare è che dobbiamo smettere di pensare che il mondo online e quello offline siano separati.” Ha citato come esempio un caso di cronaca in cui dei ragazzi si davano appuntamento in un quartiere di Roma dove sono andati a picchiare dei giovani bengalesi, per poi postare le foto sui social.
Le caratteristiche dell’ambiente digitale che diffondono l’odio, secondo Pasta, sono le seguenti: “La prima è la velocità del web 2.0 (quello in cui l’utente crea contenuti oltre a fruirli, ndr), dove vi è un sovraccarico informativo; noi tutti prendiamo soprattutto decisioni veloci e intuitive, in maniera ripetitiva, e molto più raramente in maniera approfondita. Sul web decidiamo in maniera veloce a cosa mettere like e condividere. Altra questione è la banalizzazione dei contenuti, sui social ci sentiamo tutti esperti di tutto.” Ha fatto gli esempi di tutte le fake news in ambito medico che sono diventate ancora più pericolose con il Covid, e che il Ministero della Salute ha dovuto smentire con note ufficiali.
Ha ricordato inoltre che spesso i contenuti non appaiono nelle ricerche sulla base dell’affidabilità ma di quanto vengono visualizzati, tanto che “cercando oggi video sull’olocausto uno dei primi risultati era un video negazionista.” Inoltre, Pasta ha sfatato il mito secondo cui gli haters approfittano dell’anonimato per agire: “È difficile sfuggire alla polizia postale, e il web 2.0 si basa sul tracciare ed essere tracciati. Io voglio vedere altri profili e ricevere like sul mio.” Ha concluso che, stando a diversi studi delle neuroscienze, le interazioni mediate dagli schermi attivano le emozioni molto meno di quelle corporee.
L’ultimo relatore dell’Osservatorio Mediavox è stato Michele Kettmajer, presidente dell’Istituto MediaCivici, che studia come si evolvono i modelli sociali e d’informazione in rete. Kettmajer ha spiegato che “quello dell’informazione sta diventando sempre più un ecosistema all’interno di qualcosa di più grande, che è il web. Internet è stata una delle infrastrutture che hanno retto meglio alla pandemia, ed è stata una grande opportunità per trasmettere l’informazione.” In questo contesto, tuttavia, “si sono create le cosiddette bolle informative, dove ci si connette solo con persone simili e si scambiano messaggi veloci che non impegnano troppo la riflessione. Nei social network vi è una vera e propria strategia della disattenzione, che favorisce una comunicazione frammentata e piena di pregiudizi. I social creano una cultura monodirezionale per favorire incentivi economici, senza tenere conto della qualità dell’informazione corrotta.”
Ha ricordato che l’OMS ha riconosciuto come una vera e propria epidemia anche la cosiddetta “infodemia”, una diffusione informazioni false ritenuta pericolosa sia a livello sociale che per la salute delle persone. Ha aggiunto che l’odio “è frutto della sofferenza delle persone, e viene sfruttato per creare conseguenze politiche.” Ha aggiunto che la società dovrebbe contrastare le diseguaglianze economiche che creano l’odio, “se non ci fossero ragioni reali di scontento, gli odiatori non avrebbero tutto questo spazio.”