Umiliare, vessare, prendere in giro, deridere, escludere, mettere all’indice. La ferocia del gruppo può esprimersi con parole, sguardi, gesti e non per forza fisici. Una battuta, una risatina, un commento possono annientare, con ricadute a volte terribili. Instagram, Whatsapp, Tik Tok… Come arginare uno dei fenomeni più distruttivi di oggi? Urge un piano d’azione. Un progetto per combatterlo ovunque, anche nel mondo ebraico. Che è già stato messo a punto e sta partendo
Caro lettore, cara lettrice,
per quanto io provi a non pensarci, non riesco. Mi sforzo ma non trovo il nome di quel sentimento che accompagna lungo tutta la vita la perdita di un genitore, di un amico, di una creatura a noi cara e vicina, del dolore per coloro che un anno fa, tra marzo-aprile-maggio, ci hanno lasciato a causa del virus e delle polmoniti, e non c’era settimana che passasse senza dover pubblicare su Mosaico dei necrologi. Persone di questa nostra cara Comunità che molti di noi conoscevano, stimavano, frequentavano, me compresa. Ricordarli in questo breve spazio, rendere omaggio alla loro memoria pur senza nominarli – per pudore – lo sento come un dovere. È un’ombra che non si dilegua, un peso e uno svuotamento che accompagnano questo primo anno di commemorazioni e di delicati ricordi, celebrati in un persistente mutismo, alla spicciolata, magari su zoom con una breve lezione di Torà, oppure in casa, insieme a pochi intimi, o in un tempio sebbene in esterno, nel cortile, per un minyan furtivo all’aria aperta.
Non ci sono risarcimenti né dichiarazioni possibili; in una comunità dove ci si conosce «ognuno appartiene a tutti gli altri», come scriveva Aldous Huxley nel Mondo Nuovo, fili sottili e pochi gradi di separazione vissuti al netto delle inevitabili (e sovente incomprensibili) discordie e suscettibilità reciproche.
Imporsi la razionalità dopo il dolore non è facile, anzi è impossibile. Il silenzio occupa tutto lo spazio, si infila in ogni angolo e nelle pieghe delle ore, negli interstizi delle giornate. Un silenzio che taglia il respiro e trattiene il fiato, che chiede di essere ascoltato. A volte introduce una nota di dolcezza, quando il racconto di commemorazione si tinge di note personali nella testimonianza di un kaddish collettivo, un kaddish che sigilla un anno tra i più duri. Quanta vita e rinascita, quanta volontà di memoria ci vuole per resistere senza soccombere alla forza dell’oblio, al lungo corso dei giorni, per non incatenarsi ai ricordi che lacerano e impediscono di vivere? Tutto nella vita appartiene alla vita. Si vive per vivere, non per imparare a vivere, sbagli compresi, rimpianti o ripensamenti tardivi inclusi.
In questa nostra età tremendamente adulta ci siamo accorti di aver fatto un uso sconsiderato e imprudente delle felicità pregresse, abbiamo sperperato promesse e considerato la bellezza, la salute, il talento, la fortuna, come fossero doni comuni e banali. Abbiamo tolto splendore alle cose, penosamente in ritardo su tutte le possibili consapevolezze, in affannoso recupero su tutte le verità esistenziali. «Ho perduto il senso/ mancato l’allusione/ mal interpretato/ mal compreso/ fatto troppo o troppo poco», scriveva Isaac Bashevis Singer in una poesia scritta nel 1984. Come per Singer, anche a noi capita di mancare l’allusione, mal interpretare, fare troppo o troppo poco.
Fiona Diwan