Lia Levi, i suoi libri, Shalom… ma «gli incontri nelle scuole sono basilari nella mia vita»

di Marina Gersony

Intervista a Lia Levi, giornalista e “scrittrice della memoria”, oggi una pluripremiata autrice di opere per ragazzi e non solo, in cui l’ebraismo, fatto di storia e tradizioni, è una costante. Fondatrice e direttrice per anni di Shalom, è una protagonista dell’informazione ebraica in Italia

Una voce decisa, affabile e un eloquio schietto che conquista. Lia Levi, scrittrice, sceneggiatrice, giornalista, fondatrice di giornali, voce autorevole del mondo ebraico (per trent’anni ha diretto il mensile di informazione e cultura ebraica Shalom) e una vita intensa tutta da raccontare. Nata a Pisa il 9 novembre del 1931, stesso giorno della Notte dei cristalli che sette anni dopo segnerà il destino del popolo ebraico, ha vissuto in gioventù gli anni delle persecuzioni. Qualcuno le chiama sincronicità junghiane… La sua biografia narra di una famiglia ebraica piemontese della buona borghesia, più legata alle tradizioni che alla religione. Una storia come tante in un’epoca che per gli ebrei non lasciava presagire nulla di buono. Dopo essersi trasferiti a Roma negli anni ’40, dove la scrittrice vive tuttora, i Levi si ritrovarono immersi in una realtà sempre più cupa e minacciosa tra delazioni, arresti e deportazioni verso i campi di sterminio dell’Europa centrale. Una storia tristemente nota. La piccola Lia e le sue sorelle si salvarono grazie alla prontezza di spirito dei genitori e alla benevolenza di alcune suore che le tennero nascoste nel collegio romano di San Giuseppe di Chambéry fino alla Liberazione. Di quel periodo buio – tema ricorrente delle sue opere – l’autrice scrisse un libro toccante, Una bambina e basta (premio Elsa Morante opera prima 1994), diventato un classico nelle scuole. Un tema, quello della memoria, che Levi ha deciso di rendere pubblico soltanto negli anni ‘90, quando in Italia si tendeva a ridimensionare il peso delle Leggi razziali che condussero alla Shoah. «Da scampata mi sembrava blasfemo raccontare la mia storia, certamente drammatica ma non tragica», precisa con quell’onestà intellettuale non sempre scontata. Intorno a questi temi ruota anche il suo ultimo libro acclamato dalla critica; un romanzo potente, a tratti duro, e con un titolo eloquente tratto da un verso di Paul Celan: Ognuno accanto alla sua notte (edizioni e/o, pp. 272; euro 18,00).

Ognuno accanto alla sua notte
Un romanzo che parla di destino e dolore. «In questo libro ho voluto raccontare delle storie che si intrecciano fra di loro, in cui il destino e il dolore fanno parte delle vite dei protagonisti. Il dolore può essere ereditato, antico, subìto, inaspettato, improvviso, respinto, accolto, compreso, rimosso; può essere individuale e collettivo. Ci sono varie declinazioni del dolore», osserva l’autrice. La trama del romanzo in breve (per non spoilerare, ndr), si svolge sullo sfondo di una Roma caotica ma anche appartata e su due piani temporali, il 2019 e il 1939, collegati da un filo sottile. Tre sono i racconti principali che si snodano negli anni delle Leggi razziali: un commediografo ebreo di successo messo al bando e costretto a nascondersi lavorando in incognito per scrivere i suoi testi teatrali; una coppia di adolescenti – lei ebrea vittima designata, lui figlio di un gerarca nazista – protagonisti di un amore tormentato e proibito; un figlio e un padre, membro della dirigenza ebraica di Roma, che si fronteggiano sul ruolo e le responsabilità di una classe dirigente che il figlio reputa inadeguata. Tre storie di persone comuni ma soprattutto ignare di far parte di una stessa narrazione, dove caso, solidarietà, certezze e incertezze sono le componenti di un grande Destino sempre pronto a rimescolare le carte in tavola.

L’elaborazione della memoria
Destino, dolore, ma anche il tema memoria ricorre puntuale nelle opere di Lia Levi. Una memoria che soprattutto negli ultimi anni è diventata sempre di più oggetto di dibattito pubblico tra valorizzazione, ridimensionamento ma anche negazione: «Una cosa è il ricordo e una cosa è la memoria – afferma la scrittrice -. La memoria è elaborazione, il ricordo non lo è. La memoria non è statica, è un lavoro costante di ricerca e di elaborazione che si trasformano in presente. Io sono fra coloro per i quali il Giorno della Memoria è fondamentale nonostante gli attacchi e le critiche. Ormai è risaputo che è diventato anche un fatto mediatico banalizzato, sfruttato, per nulla sentito o “di moda”. Ma poi ci sono i giovani che spesso sono molto preparati su questo tema, hanno studiato con impegno, letto libri, cercato materiale, ne hanno discusso fra di loro e con gli insegnanti proponendo delle nuove narrazioni sulla Shoah. È commovente vedere il loro coinvolgimento e la memoria che si rimette in moto stimolando la mente e l’emotività. Per questo gli incontri con le scuole sono diventati basilari nella mia vita. Penso che per il processo di elaborazione tutto sia importante, e non parlo solo di libri, ma anche di cinema, teatro, arte e architettura: mi viene in mente il museo di Berlino oppure le pietre d’inciampo, tutte occasioni per fermarsi un attimo a riflettere e immedesimarsi. Io qui cito Elie Wiesel: un giorno una studentessa gli chiese perché si parlava così tanto di questi argomenti aggiungendo che “visto che voi avete sofferto tanto, forse volete che soffriamo anche noi”. Al che lui le rispose: “No, io voglio solo che voi siate sensibili”. Ecco, è la parola “sensibili”, una piccola parola che da sola potrebbe salvare l’intera società».

Lia Levi con il marito Luciano Tas

Shalom, una testata Storica
«Eravamo in pochi, entusiasti, motivati e con tanta voglia di fare – ricorda Lia Levi -. A quei tempi collaboravo con i media della Comunità ebraica di Roma. A un certo punto un amico, Alberto Baumann, disse: “perché non facciamo un vero giornale che non sia solo un bollettino interno?”. Nacque così l’idea di fondare un giornale in un periodo politicamente caldo che coincideva con la Guerra dei Sei Giorni. Eravamo tutti molto preoccupati per le sorti di Israele. Ricordo la gente che arrivava in un ufficio stampa improvvisato, tra cui diversi cattolici e noi giornalisti che cercavamo di spiegare cos’era Israele e di aiutare. Abbiamo ottenuto l’appoggio della Comunità e in seguito Shalom ha potuto sopravvivere grazie a un pubblicitario che ci ha procurato talmente tanta pubblicità che ci ha permesso di fare un vero e proprio giornale anche politico. Insomma, era un giornale culturale che andava in tutte le redazioni, dove scrivevano anche giornalisti non ebrei come segno di amicizia. Era un giornale artigianale, ma molto vitale e dinamico, oggi queste cose sono un po’ più organizzate».
Correva l’anno 1967 quando Lia Levi e i suoi colleghi decisero di fondare Shalom, mensile di informazione e cultura ebraica edito dalla Comunità ebraica di Roma e uno dei principali organi di informazione degli ebrei italiani. Diretto in seguito da Luciano Tas, anima politica di Shalom e compagno di vita di Lia Levi, il giornale vantava firme di primo piano tra cui Khaled Fouad Allam, Furio Colombo, Clemente Mastella, David Meghnagi, Fiamma Nirenstein, Massimo Teodori, Giancarlo Elia Valori, Ugo Volli, Alessandra Farkas, Giorgio Israel e molti altri ancora.
Ci può raccontare un episodio di quegli anni? «Era un momento in cui tutti volevano intervistare Gianni Agnelli dopo che si era diffusa la notizia dell’accordo Fiat-Libia – racconta la scrittrice -, ma senza successo. Ci provò anche Tullia Zevi e Agnelli le rispose di sì, che l’avrebbe rilasciata, purché la destinasse esclusivamente a Shalom. E così è stato. Si trattava di una notizia importante e un fatto politico di portata nazionale che tutti gli altri giornali avrebbero voluto riprendere per primi. Il nostro numero era già pronto per andare in stampa, quindi ci mettemmo freneticamente al lavoro in tipografia, non solo noi redattori, ma anche i nostri figli che abbiamo chiamato con urgenza da casa per aiutarci. Potete immaginare tutti quei ragazzini a cucire a mano il foglio con l’intervista di Agnelli da inserire nel giornale. È stato un episodio memorabile».

Essere ebrei oggi
«Prima di tutto bisogna distinguere tra osservanti e no. L’osservante ha una vita tracciata da seguire, è più semplice. L’ebreo laico deve invece fare conti con se stesso, rapportarsi con i principi dell’ebraismo sapendo che lo farà per una via più personalizzata, più difficile, perché si tratta di trovare un equilibrio. Come diceva Kafka, l’ebreo della modernità è come un animale che ha quattro zampe, due nel passato e due nella contemporaneità; un animale che si dibatte in un continuo dilemma. In un certo senso è un po’ così. È impegnativo essere ebrei, ma è anche molto bello. L’ebreo è un uomo sempre in bilico, ma è anche l’uomo della modernità. Ne vale la pena…».
A proposito di assimilazione: gli ebrei sono destinati a scomparire secondo lei? «No – afferma l’autrice – non scompariranno, hanno resistito per secoli e continueranno ad esistere. Anche per un semplice motivo, i valori ebraici secondo me interessano moltissimo non solo agli ebrei in Israele o in Diaspora, ma anche ai non ebrei. La cultura ebraica è uno studio continuo, l’ebreo si interroga costantemente, si pone sempre delle domande, pensiamo soltanto ai Dieci Comandamenti che in qualche modo appartengono a tutto il mondo. Credo che la forza dell’ebraismo non sia scomparsa e non scomparirà mai, c’è chi rimarrà legato al vincolo religioso e chi no. Quanti sono i figli di matrimonio misto che scoprono di avere un nonno ebreo e iniziano un’appassionata ricerca delle proprie radici?».