di Sofia Tranchina
Amicizia, amore, spiritualità, dialogo ebraico-cristiano. E su tutto la presenza benevola di un pensatore coraggioso: Rav Giuseppe Laras. In memoria e ricordo della sua figura, il 13 maggio si è tenuta alla sede centrale dell’Università degli Studi di Milano in via Festa del Perdono una conferenza in commemorazione dell’ex docente di Storia del Pensiero Ebraico della Facoltà di Lettere e Filosofia, il Rabbino Giuseppe Laras, “uomo del dialogo” (questo era appunto il sottotitolo dell’evento).
Lo studioso e Maestro torinese, venuto a mancare quattro anni fa, aveva infatti inaugurato in Italia un fecondo e vivace clima di dialogo ebraico-cristiano, in collaborazione con Carlo Maria Martini, Paolo De Benedetti e il Cardinale Tettamanzi, il quale lo aveva nominato membro della sezione orientalistica (classe di studi giudaici) all’Accademia Ambrosiana.
Durante la sua introduzione, il rettore Elio Franzini ha accennato alla storia di Rav Laras, che rappresenta «l’immotivata sofferenza di un popolo senza colpa alcuna», e alla volontà di questi di creare un «dialogo non auto-referenziale, fondato su contenuti di pensiero forti». Il dialogo è la capacità di essere presso l’altro rimanendo sé stessi: in ragion del fatto che un dialogo inter-religioso è prima di tutto un dialogo tra due culture (perché «la religione è ciò che deve unire e legare, non creare divisione»), il rettore ha proposto la tesi che la nascita di un’identità si abbia soltanto nel momento in cui si conoscono, accettano e apprezzano le differenze. Infine, a partire dal dettaglio esistenziale per cui gli ebrei durante le persecuzioni si riconoscevano tra loro per il comune sguardo di spaesamento, il rettore ha dichiarato che il nostro compito è quello di dare a questo popolo un Paese, affinché tale smarrimento scompaia e non possa più tornare.
Una breve nota biografica è stata poi disegnata da Vittorio Bendaud: il trauma della Shoah e la denuncia ai fascisti da parte della portinaia, della nonna e della madre di Laras, entrambe nascoste in soffitta e poi deportate e morte in un campo di sterminio; il conseguente mutismo del giovane Laras, una dolorosa afasia durata lungo tempo e curata grazie all’amore per una creatura innocente, superata soltanto davanti all’affettuosità della sua capretta Bianchina; e infine il percorso di studi e intellettuale. Un incontro quello in Statale, scandito dal moderatore Don Lorenzo Maggiori sulla scorta di capitoli, a partire da citazioni dal libro pubblicato da Garzanti Meglio in due che da soli. L’amore nel pensiero di Israele, in cui Rav Laras ha affrontato i diversi aspetti dell’amore (amicale, spirituale, coniugale). «“Nell’amicizia bisogna seguire non la propria volontà ma quella dell’amico”. Parliamo di Laras come amico».
In risposta, Gianantonio Borgonovo ha tracciato l’itinerario della crescente divaricazione tra ebraismo e cristianesimo a partire dal II secolo, quando la chiesa, ormai ellenista e alleata con l’impero romano, iniziò a ritenere eretiche le comunità ebraiche, e volle cancellare tutto ciò che avrebbe potuto favorire una memoria ebraica: «non si parlava più di Israele ma di Palestina, nome ancora oggi odioso perché nacque proprio con l’imperatore Adriano nel 135» (il termine fu usato infatti per la prima volta in modo ufficiale per indicare una provincia soltanto nel 135 d.C., dopo la terza e ultima rivolta ebraica contro l’occupazione romana, quando le autorità romane cambiarono punitivamente il nome della Provincia di Giudea in Syria Palaestina). Tale divaricazione crebbe quando nel 326 Costantino definì l’ebraismo una “diabolica macchinazione” (scrisse in una lettera per i vescovi del Concilio: «noi non vogliamo più avere niente in comune con questa diabolica macchinazione»), ed ebbe il suo culmine nella Shoah, che favorì una presa di coscienza riguardo al fatto che la cultura nazista nacque proprio nel contesto cristiano. Le divergenze tra le due religioni proseguono anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, arrivando fino a Benedetto XVI che nella preghiera del venerdì santo reintrodusse la formula «perfidi giudei».
Ed è proprio nell’abisso che si è formato tra le due comunità cristiana ed ebraica che Laras ha creato i primi ponti, raggiungendo un livello di “amicizia con l’altro” tale da arrivare a benedire in ebraico il Cardinal Martini, il quale l’ha poi a sua volta benedetto secondo la formula cristiana. «L’amicizia – conclude Borgonovo – è questo: rivedere la Storia con gli occhi dell’altro».
«“L’uomo è geloso di tutti esclusi il figlio e l’allievo: in questi due casi l’agire dell’altro viene sempre inteso come bene”. Parliamo di Laras come maestro».
Laras fu «un maestro che ha amato il suo discepolo e quindi l’ha bastonato», come ha commentato scherzosamente Don Lorenzo Maggiori. Vittorio Bendaud, allievo di Laras, l’ha dunque descritto come «un uomo con cui potevi parlare di tutto, purché con capacità critica», un maestro «molto esigente, anche con sé stesso: studiava Talmud per sette ore ogni giorno, e ancora non si riteneva talmudista».
«“L’amicizia è la contemplazione di sé stessi attraverso l’amico in Dio”. Parliamo di amicizia ebraico-cristiana».
Vittorio Bendaud ha dunque evidenziato come l’appartenenza a religioni diverse non si mostra tanto nella differenza di credo quanto nell’appartenenza a comunità diverse («non esiste cristianesimo senza la Chiesa né ebraismo senza il popolo ebraico»), e un’amicizia sincera inter-religiosa deve arrivare in ragione dell’identità, non nonostante essa. E ciò, come Laras stesso diceva in riferimento all’amore per Dio, può avvenire solo in presenza di una profonda conoscenza di sé stessi.