di Avi Shalom
Violenze in Israele in contemporanea con gli attacchi da Gaza. Sinagoghe, yeshivot, automobili e negozi di ebrei dati alle fiamme da concittadini arabo-israeliani in quello che il presidente Reuven Rivlin ha definito “un vero Pogrom”. Ma ci sono anche squadracce di ebrei fanatici che hanno reagito con violenze e pestaggi
Il maggio 2021 resterà impresso a lungo nella memoria collettiva degli israeliani. Non tanto per le migliaia di razzi lanciati da Gaza verso le loro città. Semmai per l’onda d’urto che essi hanno provocato nella società israeliana e per lo sconquasso provocato ai vertici politici, già travagliati da una crisi di governo infinita.
All’inizio del mese gli ingranaggi della escalation si sono messi in moto con rapida accelerazione. Qualcuno poi dirà che potrebbe essere una dinamica da Intifada, da rivolta popolare, ma la cosa ancora non risulta chiara per niente. I primi fermenti si sono avvertiti a Sheikh Jarrah, un rione di Gerusalemme est dove alcune famiglie palestinesi si opponevano allo sfratto da edifici di cui una società ebraica rivendicava la proprietà. Il 7 maggio le tensioni esplodono, in pieno Ramadan, con estesi scontri fra fedeli islamici e la polizia, sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Tre giorni dopo le fiammate diventano ancora più elevate perché nuovamente la Spianata delle Moschee è teatro di gravi incidenti, mentre nelle vicinanze un corteo di nazionalisti israeliani punta verso la Città Vecchia nel giorno della riunificazione di Gerusalemme. Dalla moschea al-Aqsa, migliaia di fedeli inneggiano a Mohammed Deif, il comandante militare di Hamas. È appunto il messaggio che Hamas attendeva. Da Gaza, Deif ordina immediatamente il bombardamento di Gerusalemme con una salva di razzi.
La notte successiva, il fuoco attizzato da Hamas a Gerusalemme e a Gaza, si estende a Lod, città a popolazione mista, a 20 chilometri da Tel Aviv. Una folla di arabi attacca indiscriminatamente passanti e proprietà di ebrei, incendia di tutto, anche sinagoghe. È una notte di violenze particolarmente gravi, che trova impreparata la polizia. Un ebreo viene linciato in strada da decine di arabi israeliani infuriati: morirà alcuni giorni dopo, in ospedale. Nei loro appartamenti, famiglie di ebrei si trovano completamente alla mercè dei facinorosi. In molti quartieri, ebrei ed arabi vivono negli stessi edifici: il vicino di casa di oggi si può trasformare, domani, nel tuo aggressore. A due giorni dall’inizio dell’offensiva di Hamas, gli attacchi gravi a persone e a proprietà di ebrei si allargano a macchia d’olio. Tentativi di linciaggio ed incendi dolosi si verificano ad Akko (San Giovanni d’Acri), a Haifa, a Tiberiade, a Jaffa, ossia alle porte di Tel Aviv. Nemmeno il coprifuoco imposto a Lod (evento peraltro senza precedenti in Israele) riesce a riportare la calma.
Passa un giorno ancora, ed è allora che entrano in azione anche facinorosi israeliani. Si tratta dell’ala “muscolare” dell’estrema destra ebraica. Ormai si viaggia in piena anarchia. La reazione è violenta. Passanti arabi sono percossi senza pietà. A Bat Yam, cittadina turistica vicino a Tel Aviv, un arabo viene aggredito dalla folla e ferito gravemente davanti alla telecamera della televisione pubblica, che per 40 minuti trasmette tutto l’attacco in diretta, senza che la polizia sopraggiunga. A Haifa, una città nota per la tradizionale convivenza pacifica fra ebrei e arabi, alcuni arabi entrano nel parcheggio di un condominio abitato da ebrei ultraortodossi e incendiano decine di automobili in sosta. Sotto al palazzo si scatena un incendio furioso, che provocherà l’intossicamento di 60 israeliani, per lo più bambini.
Sono passati appena quattro giorni dagli scontri alla Spianata delle Moschee: sul sud e sul centro di Israele piovono migliaia di razzi e nelle città a popolazione mista regna il caos. Benyamin Netanyahu fa entrare in campo lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno. «Questi episodi sono terrorismo vero e proprio», esclama. Intanto gli abitanti di Lod non si sentono più protetti dalla polizia e chiedono l’aiuto dei coloni della Cisgiordania. Dagli insediamenti arrivano subito torpedoni di giovani pronti a respingere con la forza la minaccia dei facinorosi arabi. Si vedono allora civili ebrei armati pattugliare le strade della città, mentre fra gli abitanti arabi di Lod (una città afflitta da decenni da problemi sociali e da una forte presenza della criminalità araba) le riserve di armi da fuoco sono ritenute preoccupanti. Sul terreno si crea una miscela esplosiva. Da un lato integralisti islamici appoggiati da elementi di dubbia reputazione – forse malavitosi – della loro comunità. Dall’altro, attivisti dell’estrema destra radicale israeliana, sostenuti da chi in Cisgiordania sa bene che talvolta è necessario utilizzare le armi da fuoco per sfuggire ad agguati e per tornare a casa indenni. Adesso la “febbre cisgiordana” minaccia di contagiare Israele.
Incrinata la coesistenza
Oggi, gli israeliani si chiedono come sia stato possibile che in soli cinque giorni si sia incrinata una coesistenza fra ebrei e arabi coltivata per decenni, anche se fra molte difficoltà. E se sarà mai possibile tornare indietro. Proprio nell’ultimo anno si erano registrati progressi importanti, che facevano ben sperare per il futuro. Innanzitutto la lotta al Covid, che aveva visto dottori e infermieri arabi in prima linea nella lotta alla pandemia, spalla a spalla con i loro colleghi ebrei, del tutto indifferenti alle convinzioni religiose di ciascuno. Lo stesso Netanyahu, per settimane, aveva voluto visitare personalmente località arabe, per spronare la popolazione a vaccinarsi. Scherzosamente si era anche guadagnato l’appellativo arabo di “Abu Yair”, il padre di Yair. E l’impegno comune tra arabi israeliani ed ebrei, aveva ottenuto un successo eclatante, facendo di Israele uno dei primi Paesi ad emergere dal Covid. Dopo le elezioni del 23 marzo, inoltre, alla luce del pareggio fra il blocco del Likud e quello dei suoi oppositori centristi, proprio due liste arabe erano divenute, con loro sorpresa, possibili aghi della bilancia per la formazione di una nuova coalizione di governo. Proprio un partito a base islamica, il Raam, aveva avviato contatti con il blocco del Likud per la formazione del nuovo governo, anche come possibile sostenitore esterno. Alla fine di aprile sembrava quasi fatta: imminente l’ingresso di deputati arabi nelle stanze del potere, per sollevare le condizioni della minoranza araba che soffre di un tasso elevato di povertà e di preoccupanti livelli di violenza, dovuti anche alla disoccupazione generata dal Covid.
Su questo sfondo, che faceva ben sperare e obiettivamente incoraggiante, si è scatenata la violenza irrazionale in diversi agglomerati arabi. Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza, cerca di stabilire se dietro ci sia stata una regia. Il principale sospettato è il movimento islamico, che è suddiviso in Israele in due fazioni. Quella settentrionale, più massimalista, in passato ha avuto contatti (a livello di istituzioni di beneficienza) con la Turchia di Erdogan e anche con Hamas. Ci si chiede: possibile che abbia avuto istruzioni da Gaza? Fra i primi passi compiuti dallo Shin Bet c’è stato l’arresto di uno dei suoi dirigenti. Invece la corrente meridionale legata a Raam si è rivelata ben più pragmatica. A Lod il suo leader, Mansur Abbas, ha visitato le sinagoghe bruciate e ha promesso che gli islamici contribuiranno alla ricostruzione.
Ma lo Shin Bet ha dovuto indagare anche la violenza ebraica: l’ha localizzata nei “Nuclei religiosi” creati da collegi rabbinici ultra-nazionalisti all’interno di agglomerati principalmente arabi, a Lod, Jaffa, Akko e altrove. Come mai erano insediati in un ambiente così poco congeniale e accogliente? Perché? La popolazione araba non ha dubbio alcuno: si tratterebbe di una sorta di avamposti organizzati dal movimento dei coloni per accrescere la propria presenza nella fascia costiera di Israele. Ad alimentare questa sensazione, ossia che si tratti di una penetrazione di carattere politico, sono giunti i cospicui finanziamenti pubblici di cui i “Nuclei religiosi” abitualmente beneficiano. Milioni di shekel che provengono sia da ministeri, sia dalla Agenzia ebraica. La sensazione della popolazione araba è che si tratti di una replica di quanto avvenuto a Gerusalemme est nei rioni palestinesi di Silwan e di Sheikh Jarrah dove una presenza limitata di famiglie israeliane è andata velocemente estendendosi, alterando per sempre il carattere di quei quartieri. I duri scontri avvenuti all’inizio del mese a Sheikh Jarrah non potevano dunque non trovare una eco immediata nelle città a popolazione mista di Israele.
Oggi si tratta di spegnere l’incendio ed evitare un’escalation. Ci hanno provato il capo dello Stato Reuven Rivlin, il rabbino capo Yitzhak Yosef, il leader islamico Mansur Abbas, esponenti del mondo politico e della cultura, organizzazioni di base e semplici privati. Ma le ferite si stanno rivelando molto profonde, e sarà necessario del tempo per rimarginarle.
Un sistema efficace, suggeriscono alcuni analisti, sarebbe forse la inclusione immediata di un partito arabo nella futura coalizione di governo. Ma le probabilità appaiono al momento estremamente scarse.
(Foto in alto: una sinagoga data alle fiamme a Lod – Ahmad Gharabli – AFP)