di Francesco Paolo La Bionda
Il conflitto combattuto a Gaza lo scorso maggio, nell’ambito della più ampia crisi scoppiata tra Israele, palestinesi e arabi israeliani, ha portato all’evidenza il nuovo assetto del fronte filopalestinese regionale, progressivamente definitosi nel corso degli ultimi anni.
Al distacco ormai avanzato del mondo arabo dalla causa palestinese si è contrapposto il protagonismo di Turchia e Iran, il cui aggressivo ecumenismo islamico ha sostituito la solidarietà panaraba spenta da tempo.
La Turchia, fra scambi economici con Israele e finanziamenti a Hamas
Il governo turco e lo stesso presidente Erdoğan sono stati ferocemente vocali nel condannare in toto Israele per la crisi, raggiungendo vette di violenza verbale inedite rispetto ai contrasti già avvenuti in passato in occasione dei precedenti scontri armati tra lo stato ebraico e Hamas. Israele, nelle dichiarazioni turche succedutesi nei giorni del conflitto, è stato definito “stato terrorista”, “unico responsabile delle violenze”, colpevole di “crimini contro l’umanità” e di “un attacco contro tutti i musulmani”.
Le relazioni tra Turchia e Israele erano già fortemente deteriorate proprio a causa della questione palestinese: per rappresaglia contro la proclamazione di Gerusalemme come capitale dello stato ebraico nel 2018, Ankara aveva espulso l’ambasciatore israeliano, scatenando una simmetrica risposta da parte israeliana. Tuttora i rappresentanti diplomatici di entrambi i paesi esercitano il proprio ruolo in absentia.
Eppure nei mesi precedenti al conflitto si era registrato un tentativo turco di ricucire i rapporti: “Ankara aveva già mostrato il desiderio di migliorare le relazioni con Israele già alcuni mesi fa, ma la risposta israeliana agli ammiccamenti turchi è stata piuttosto silente”, spiegava Gallia Lindenstrauss, del think tank israeliano Institute for National Security Studies, lo scorso marzo.
La principale, anche se non esclusiva, ragione della diffidenza israeliana riguardava ancora una volta Gaza e in particolare il supporto turco fornito ad Hamas negli ultimi anni. Ankara ha sempre rivendicato la fornitura di aiuti puramente umanitari alla Striscia: la sola Croce Rossa turca, ad esempio, ne ha inviati per un valore di 105 milioni di dollari dal 1995 a oggi.
Evidenze esterne hanno però provato la connivenza, e talvolta la collaborazione, tra governo turco e il “Movimento Islamico di Resistenza”, il cui leader Ismāʿīl Haniyeh è stato peraltro ricevuto formalmente da Erdoğan nel 2019 e nel 2020. Già nel 2018 lo Shin Bet aveva pubblicamente presentato i risultati di un’indagine sulle attività dell’organizzazione terroristica sul suolo anatolico, rilevando che “le ramificate attività economiche e militari di Hamas in Turchia avvengono indisturbate, in quanto le autorità turche chiudono un occhio e – talvolta – le incoraggiano, e col supporto di cittadini turchi, alcuni dei quali vicini al governo”.
La Turchia è inoltre il principale alleato e protettore del Qatar, i cui finanziamenti sorreggono economicamente il governo di Hamas a Gaza: 1,4 miliardi di dollari dal 2012, a cui ora si aggiungono 500 milioni promessi per la ricostruzione. Denaro vitale per la sopravvivenza della formazione palestinese, al punto che fonti dell’organizzazione, citate a giugno dal giornale libanese Al Akhbar, hanno minacciato di far saltare il cessate il fuoco se Israele non dovesse permettere l’afflusso della liquidità nelle sue casse.
Gli interscambi commerciali tra Israele e Turchia, nonostante i contrasti, continuano a crescere: dal 2002, anno dell’ascesa alla presidenza di Erdoğan, a oggi sono passati da 1,4 a 6,5 miliardi di dollari, secondo dati dell’Istituto Statistico Turco (TÜIK). Questo non significa tuttavia che un riavvicinamento politico sia inevitabile: come osservava nel 2019 Adiv Baruch, presidente dell’Israel Export Institute: “La Turchia è un paese le cui relazioni diplomatiche con Israele sono completamente separate dalle relazioni economiche”.
Intanto, la comunità ebraica turca fa le spese della retorica governativa che spesso confligge l’ostilità con gli israeliani con quella verso gli ebrei: già nel 2015, secondo dati dell’Anti-Defamation League, il 71% dei cittadini turchi nutriva sentimenti antisemiti. Spingendo i concittadini di fede ebraica ad emigrare: dei 23.000 presenti al momento dell’insediamento del “Sultano”, ne restano oggi meno di 15.000.
L’Iran, il principale sostenitore di Hamas
Se il comportamento della Turchia riguardo a Israele e Hamas può ancora essere definito ambivalente, non è il caso dell’Iran. La Repubblica Islamica continua a non riconoscere la legittimità dello stato ebraico e a invocarne la cancellazione dalle mappe: ancora lo scorso anno, la Guida Suprema Ali Khamenei ha definito Israele “un tumore da distruggere”. Nonostante le differenze dottrinali, essendo gli iraniani musulmani sciiti e i palestinesi invece sunniti, l’Iran ha fornito consistenti aiuti economici e materiali ad Hamas sin dagli anni Ottanta. Nel corso del conflitto di maggio, i media di stato di Teheran hanno lodato i danni inflitti dai missili palestinesi in territorio israeliano e hanno sottolineato il supporto fornito dal regime ad Hamas.
Dopo un momentaneo periodo di allontanamento durante i primi anni della guerra in Siria, a causa del rifiuto degli islamisti di Gaza di sostenere il regime di Bashar al-Asad, da 2017 l’Iran è tornato ad essere il principale sostenitore di Hamas. Dal punto di vista finanziario, secondo fonti arabe gli aiuti sono passati dai 70 milioni di dollari annui stimati nel 2018 a ben 30 milioni al mese nel 2019, dopo l’incontro avvenuto ad agosto di quell’anno a Teheran tra Khamenei e il secondo in comando dell’organizzazione terroristica, Saleh al-Arouri. In cambio dell’aumento di stipendio, i miliziani sarebbero stati incaricati di reperire informazioni sulle capacità missilistiche israeliane. A maggio, appena una settimana dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco, il responsabile di Hamas per la Striscia, Yahya Sinwar, ha dichiarato che i finanziamenti iraniani erano sufficienti per coprire tutte le necessità del Movimento.
Il ruolo principale degli ayatollah è però soprattutto quello di fornitori di armi e di conoscenze tecniche, in particolare riguardo all’arsenale di razzi, che secondo l’esercito israeliano ammonterebbe ancora a 15.000 missili, peraltro il doppio delle stime precedenti al conflitto. Come riconosciuto pubblicamente da Sinwar nel 2019, senza l’Iran Hamas non avrebbe mai raggiunto le capacità di lancio dimostrate a maggio.
Questo è vero sia per i razzi di fabbricazione iraniana contrabbandati nella Striscia sia per quelli assemblati localmente grazie alla consulenza dei pasdaran. Nella prima categoria, ad esempio, rientrano i Fajr-5, in dotazione anche alle forze armate iraniane, forniti ad Hamas a partire dal 2012 e dotati di una gittata di 75 km e di una velocità massima di quasi 4.000 km orari. Della seconda fanno invece parte i razzi a corto raggio Badr-3, i più avanzati su questa gittata tra quelli in possesso dell’organizzazione palestinese, basati sul design dell’al-Qasim, fornito dall’Iran alle proprie milizie proxy in Iraq.
Né l’Iran né Hamas sembrano intenzionati a frenare in alcun modo la proliferazione degli arsenali puntati contro Israele: i canali televisivi iraniani il 31 maggio hanno dato notizia che i miliziani palestinesi hanno ricominciato a produrre nuovi missili per rimpiazzare quelli lanciati nel corso del conflitto. Mentre nove giorni prima, a meno di ventiquattrore dalla fine del conflitto, le Guardie rivoluzionarie di Teheran avevano presentato un nuovo drone, denominato significativamente “Gaza”.