Come confrontarsi in un mondo sempre più polarizzato e litigioso? Come ascoltarsi a vicenda imparando gli uni dagli altri? Dal Dialogo tra uomo e Dio al dialogo tra le varie fedi (ebraica, cristiana, islamica, buddista…); dal dialogo interiore a quello tra le generazioni… Questo è il tema della XXII Giornata Europea della Cultura Ebraica (GECE), che a Milano include
il VI Festival Jewish in the City. Verrà celebrata domenica 10 ottobre
Caro lettore, cara lettrice,
è davvero irritante vedere il compiacimento e la solerzia con cui rotocalchi e quotidiani internazionali riportano le uscite delle varie serie Netflix, stigmatizzando con piglio voyeuristico e indignato i costumi e i modi dell’ebraismo ultraortodosso di New York o Gerusalemme, raccontati come se fossero quelli di una tribù di marziani in un mondo circostante invece privo di contraddizioni, illuminato da ragionevolezza, rispetto e adamantina correttezza nei rapporti intimi e famigliari.
È spesso una nota profondamente irrispettosa quella che si avverte nelle narrazioni e negli articoli su queste miniserie Netflix, un elemento compiaciuto e giudicante che da Unorthodox all’ultimo documentario My Unorthodox Life puntano un dito accusatore sulla realtà socio-famigliare di molte comunità. Ad esempio la docuserie che narra di Julia Haart, ex Talia Leibov, che a 43 anni scappa con i quattro figli dalla comunità di Monsey per diventare designer di successo e manager del mondo della moda. Sia chiaro, non ci sarebbe niente da dire se non mi fosse capitato di leggere un articolo in cui a un certo punto compare l’espressione comunità fondamentalista e l’idea che l’eroina della serie, Julia, fa carriera e ha successo «pur restando fedele alla religione ebraica», e avendo il coraggio di ribellarsi, «una donna che ha abbandonato il XVIII secolo ed è entrata nel XXI secolo, rifiutando di servire il marito e i figli, destinata a nascondersi dietro a un uomo …»; o ancora frasi tipo «mi sono finalmente emancipata, Dio ha voluto aiutarmi».
Navigando sul web, mi sono accorta che il mio senso di fastidio non era isolato: sono così incappata in decine di post animati da un profondo senso di offesa e da poderosa levata di scudi. «Ehi, Netflix! Le mie coetanee ed io non siamo sciatte, arretrate, ignoranti o oppresse! Siamo donne ortodosse che conducono una vita felice, sana e appagante», ha titolato sui giornali USA e su Times of Israel la columnist e scrittrice Leslie Ginsparg Klein, un dottorato di ricerca alla NYU (migliaia di donne le stanno dando man forte sui social, una campagna per contrastare i messaggi negativi e l’idea che la vita delle donne religiose sia misera, mortificante, oscura). E prosegue la Klein: «La mia autrice preferita è Jane Austen. Il mio gioco preferito… Trivial Pursuit, Azul, Ticket to Ride… Ho viaggiato in tutti gli Stati Uniti, fatto surf alle Hawaii e due volte in Europa con lo zaino in spalla… Essere frum dà un senso alla mia vita e alla mia famiglia. E non ho mai avvertito che essere una donna ortodossa ed essere una donna compiuta si escludessero a vicenda».
Ora, non si tratta qui di entrare nel merito della libera scelta di Netflix di narrare storie avvincenti e interessanti, e neppure di giudicare il mondo ultraortodosso. Ma colpiscono un sentore, un nuovo vento di antica memoria: quanto il pregiudizio antiebraico si senta di nuovo e finalmente libero di scorrazzare impunito indossando panni civilizzatori e redentivi. Fatta eccezione per Shtisel (che non a caso è una produzione israeliana e non americana), alcune di queste serie appaiono viziate da un pregiudizio, da un voyeurismo inquisitorio che vorrebbe opporre un superiore punto di vista di civiltà evoluta a un mondo (ebraico) ottuso, chiuso, retrivo, ancorato ad atavismi anacronistici e “medievali”. Insomma, non si tratta qui solo di storie ma del tono narrativo con cui il mondo ebraico e haredì è restituito dai media, come se fosse monolitico, in una piatta reductio ad unum che fa di tutta un’erba un fascio. Il dibattito è aperto.
Fiona Diwan