di Ilaria Myr
«È un’emozione particolare tornare come preside nella scuola dove ho studiato: oltre ai tanti ricordi che mi suscita, mi sembra un modo di restituire in parte il valore che mi è stato dato, di dare un contributo all’istituzione che mi ha trasmesso conoscenze, strumenti e valori e a cui sono molto legato». Sono parole commosse e intense quelle con cui spiega il suo “ritorno” alla scuola ebraica di Milano Marco Camerini, che da gennaio 2022 sarà il nuovo dirigente scolastico, succedendo ad Agostino Miele.
Chi è Marco Camerini
Camerini, ebreo italiano, classe 1973, ha infatti studiato al liceo scientifico della nostra scuola dalla seconda, dopo avere vissuto a Roma, dove ha frequentato la scuola ebraica, e a Rimini. «In quest’ultima città eravamo gli unici ebrei e andavamo alla scuola pubblica – ricorda -. Ma i nostri genitori portavano mio fratello e me ogni settimana a Bologna a seguire dei corsi con il rabbino di allora, Rav Somekh, per aiutarci a costruire la nostra identità ebraica».
Proveniente da una famiglia ebraica tradizionalista, negli anni ha progressivamente intensificato lo studio e la pratica religiosa. «Una delle cose che mi ha spinto ad approfondire di più la tradizione ebraica è stato il bisogno di comprenderne l’essenza, i suoi caratteri distintivi e non essere più ‘vittima’ di alcuni “luoghi comuni” che talvolta si tramandano senza che vi sia un fondamento. Woody Allen diceva “leggo per legittima difesa”: ecco, io sono convinto che lo studio della tradizione sia importante per la nostra crescita e ci aiuti a confrontarci con gli altri su un altro livello e dare e ricevere maggiore rispetto».
Laureato in filosofia a Milano, Camerini ha lavorato per 20 anni nella formazione e sviluppo risorse umane, gestione di processi di cambiamento, coaching, consulenza organizzativa. Dal 2017 a oggi è stato Coordinatore delle attività educative e didattiche della Scuola Ebraica di Torino, che lascia dopo quattro anni con le iscrizioni in crescita, un clima interno positivo, e un bilancio, per lungo tempo negativo, oggi in pareggio.
«Sono molto grato alla Comunità ebraica di Torino e ora a quella di Milano per avere scelto di puntare su di me, una figura atipica, non proveniente dal percorso scolastico tradizionale, che può portare un punto di vista diverso, maturato anche in altri ambiti. Sono infatti convinto che l’innovazione passi attraverso la discontinuità».
Innanzitutto, quali sono gli obiettivi che ti poni per il tuo nuovo incarico?
Vorrei riuscire a creare, con il contributo anche degli altri attori, di tutti gli stakeholder, un progetto di ampio respiro, una visione della scuola ebraica che sia al passo con i nostri tempi e capace di stimolare i docenti, gli alunni e le loro famiglie. C’è bisogno di un progetto che attivi le migliori energie di ciascuno e in cui tutti possano riconoscersi. Per fare ciò è fondamentale prima di tutto analizzare le radici dei problemi, conoscere bene la situazione attuale per poi definire la meta, dove si vuole andare, ed il percorso per arrivarci. Inoltre, penso che, al di là delle differenze di dimensioni e proporzioni e alcune specificità, i problemi delle scuole ebraiche spesso sono comuni. Per questo credo molto nella sinergia e nella collaborazione tra le varie scuole (ebraiche ma non solo).
Come pensi di affrontare le sfide di una scuola che negli anni è cambiata, così come lo è la Comunità?
La scuola, da quando l’ho frequentata io, è certamente cambiata, ma penso che faccia parte di un’evoluzione globale dell’educazione. Inoltre, io personalmente vivo questa comunità, i miei figli frequentano la scuola, partecipo e ne seguo le vicende. L’esperienza di Torino mi ha dato anche tante prospettive nuove e l’occasione di partecipare a seminari internazionali sull’educazione, dove sono venuto in contatto con i direttori delle scuole ebraiche di tutto il mondo, con confronti molto interessanti. Tutto ciò per dire che la comunità è cambiata e la scuola anche, ma io sono dentro l’evoluzione, ne faccio parte, e sono coinvolto nelle vicende che interessano la comunità in cui viviamo, ma nello stesso tempo cerco di mantenere uno sguardo ampio che comprende anche ciò che accade al di fuori.
Come si può avere la ‘scuola di tutti’ gli ebrei di Milano?
C’è bisogno di quello che dicevo prima: una visione in cui tutti possano in qualche maniera trovarsi ed essere motivati a contribuire. Per fare questo è prima di tutto necessario creare una grammatica diversa, cioè uscire dagli schemi tradizionali su cui si basano le contrapposizioni interne, che purtroppo spesso cadono sul terreno delle piccole questioni. Questo significa anche sfatare alcuni “luoghi comuni”, primo fra tutti che l’ebraismo sia solo una religione, perché è molto di più di questo. C’è dunque un tema di rilancio dell’identità ebraica che va fatto.
C’è poi anche un discorso di educazione, il chinuch, che nell’ebraismo è centrale, ed è importante considerarne tutti i principi. Il tema è vedere l’ebraismo e l’identità ebraica in una chiave diversa e uscire da contrapposizione fra “religiosi” e “non religiosi”. L’esperienza della scuola ebraica di Torino, in cui la maggior parte degli studenti non è ebrea, è molto eloquente: tutti partecipano attivamente alla vita di una scuola ebraica al 100% con interesse e nel rispetto delle diversità di tutti. Il confronto rinforza il proprio io e allo stesso tempo stimola il dialogo e la curiosità. Solo così si può creare una vera inclusione.
Pensiamo ai Maestri del Talmud, studiosi di altissimo livello, che discutevano, talvolta in modo molto acceso, ma nel rispetto reciproco, tanto che l’opinione minoritaria viene comunque riportata. È una visione dell’occidente hegeliano quella per cui a tesi e antitesi debba seguire la sintesi: nella tradizione ebraica, invece, non sempre si arriva a una sintesi, talvolta ciascuno rimane della propria opinione nel rispetto della diversità. Alla base, però, ci devono essere sempre cultura, conoscenza e autenticità, altrimenti il confronto è sterile. Bisogna valorizzare i principi e le strutture del pensiero ebraico, che ha anticipato migliaia di anni fa tanti temi oggi all’ordine del giorno. Il compito della scuola è di crescere i futuri adulti della comunità ebraica di domani, trasmettendo loro i valori ed i principi fondamentali dell’identità ebraica e favorendo la costruzione di un senso di appartenenza ad essa.
Una delle piaghe della scuola ebraica negli ultimi anni è stato il calo degli iscritti. Come pensi che si possa ovviare a questo problema?
Ovviamente non esiste una ricetta magica perché il cambiamento richiede tempo. L’ho visto anche alla scuola ebraica di Torino: è stato necessario lavorare su tante variabili ma dopo quattro anni posso dire di vedere diversi segnali positivi. Fondamentale è il lavoro che è stato fatto per rafforzare il rapporto di fiducia con le famiglie. Questo è un tema centrale e delicato, perché implica un equilibrio sottilissimo fra collaborazione e rispetto dei ruoli. E poi ovviamente ci si è concentrati sulla qualità dell’offerta formativa, attraverso il miglioramento continuo della didattica, la collaborazione tra gli insegnanti e diverse attività di potenziamento. Riuscire a costruire una visione chiara e condivisa favorisce la partecipazione, il senso di responsabilità ed il clima di lavoro..
Inoltre, bisogna considerare che soprattutto nel mondo di oggi, con la velocità del cambiamento che lo caratterizza, è impossibile sapere quali saranno le conoscenze richieste nel futuro, quali professioni scompariranno e quali nasceranno: penso quindi che sia importante domandarci che genere di futuri adulti vogliamo formare? Con quali principi e valori vogliamo che crescano? Quali insegnamenti possono servire loro per tutta la vita? Per questo credo che la scuola debba fornire una preparazione culturale ampia e solida, come avveniva tradizionalmente nel modello della scuola italiana, senza farsi ammaliare dall’ultima moda del momento.
Infine, un aspetto su cui penso sia necessario lavorare – e di cui negli ultimi anni si parla molto – è l’importanza di dare ai ragazzi gli strumenti per affrontare le difficoltà, le frustrazioni e gli imprevisti della vita, e non, come alcune volte accade, cercare di spianare il percorso rimuovendo ogni ostacolo. La resilienza, parola oggi di moda, non è una dote innata, ma una capacità che va allenata, anche scontrandosi con le difficoltà: perché per potersi rialzare dopo una caduta, bisogna prima sapere cosa significa cadere. L’istituto scolastico è prima di tutto un luogo dove si impara a vivere, e nella nostra scuola lo si fa secondo una tradizione millenaria, quella ebraica».
Agostino Miele, nell’intervista che ci ha rilasciato come bilancio sui quattro anni du sua presidenza, ti ha augurato, citando il poeta Antonio Machado, di “farti la tua strada” in questa scuola. Che cosa gli rispondi?
Ringrazio il Prof. Agostino Miele per il suo augurio. Negli ultimi quattro anni ho avuto modo di apprezzare la sua professionalità e disponibilità in varie occasioni e quindi sono felice di questo passaggio di testimone che mi consentirà di percorrere un tratto di strada insieme a lui e di confrontarci su vari aspetti della vita scolastica. Mi rendo conto che la sfida è molto ardua, quasi una “mission impossible”, ma come dice il Pirkei Avot “non spetta a te completare il lavoro, tuttavia non puoi esimerti dall’offrire il tuo contributo” (2,21). E come spiega Rav Hirsch commentando questa Mishnà, “il risultato può arrivare soltanto a seguito di uno sforzo unitario collettivo”.