Cani, gatti, pesci rossi… Da rispettare, amare, nutrire “prima di noi”, come insegnano i nostri Maestri

Ebraismo

di Marina Gersony e Ilaria Ester Ramazzotti

Per sopportare meglio la solitudine del lockdown molti hanno “adottato” cani e gatti. La normativa ebraica prescrive la misericordia e il rispetto per gli animali e i loro sentimenti. Perché i pet (ma anche mucche, vitelli, asini…) provano emozioni e hanno molto da insegnarci

«Se potessi mi riempirei la casa di tutti gli animali possibili. Farei ogni sforzo non solo per osservarli, ma anche per entrare in comunicazione con loro. Non farei questo in vista di un traguardo scientifico (non ne ho la cultura né la preparazione), ma per simpatia, e perché sono sicuro che ne trarrei uno straordinario arricchimento spirituale e una più compiuta visione del mondo». Sono parole di Primo Levi, profondamente affascinato dagli animali, spesso menzionati nei suoi libri, e di come essi abbiano elaborato nel corso dei secoli delle strategie per sopravvivere, nutrirsi, difendersi, riprodursi e relazionarsi con l’uomo. Già, uomo e animale, un binomio inscindibile di benefici e vantaggi reciproci anche nelle difficoltà. Interessante osservare come, per esempio, in questi due anni di pandemia si sia registrato un incremento di adozioni e acquisti di animali domestici che hanno aiutato molti italiani, in particolare bambini e anziani, a sopportare meglio i momenti di lockdown e quarantena. Basti pensare alla pet theraphy, da tempo riconosciuta anche in ambito medico-scientifico. Purtroppo, va anche rilevato che, con l’allentamento delle restrizioni e il parziale ritorno alla normalità, sono in aumento le famiglie che per far fronte alle spese del loro mantenimento hanno abbandonato i loro beniamini, aggravando il fenomeno del randagismo. Perché se da un lato si registra uno scenario sempre più animal friendly da parte della comunità umana, è anche vero che i diritti degli animali non sempre vengono rispettati. Ed è proprio su questi diritti, ma anche sul rapporto uomo-animale, che l’ebraismo ha molto da insegnare. Come possiamo leggere nell’inchiesta che segue.

EBRAISMO E ANIMALI

Dalla letteratura rabbinica alle principali fonti della Bibbia e del Talmud – dove troviamo approfondimenti e studi autorevoli – molto è stato scritto sul mondo animale e il legame uomo-animale, un’interdipendenza che si riflette in ambito scientifico, sociale, culturale, ambientale, psicologico, economico e non solo (Pensiamo soltanto al mercato della pet economy in costante crescita, ovvero tutto ciò che gira attorno agli animali domestici e ai prodotti loro dedicati). Nonostante le fonti bibliche non siano sempre univoche e alcuni testi sono oggetto di interpretazione e di confronto, il dovere di rispettare gli animali e il divieto di arrecare loro dolore inutile, è ampiamente riconosciuto (tzà‘ar ba‘alè chayìm). Fin dai tempi più remoti, e già ben prima di Maimonide, esiste infatti una normativa ebraica di rispetto per tutti gli esseri viventi e in particolare per gli animali. Pensiamo soltanto alla shekhitah, la macellazione kasher, dove «l’animale deve essere ucciso con rispetto e compassione»; per non parlare dello sfruttamento degli animali, a partire dagli allevamenti intensivi, e la sperimentazione, regolamentata secondo la Halakhà, così come nell’etica generale, tutti macro-temi più volte affrontati su questo stesso giornale. Come ha spiegato Rav Jonathan Sacks z”l, in una lezione sulla parashà Ki Tetzè, pubblicata sul sito RabbiSack.org: «La persona giusta si prende cura dell’anima (nefesh, forza vitale) del suo animale», dice il Libro dei Proverbi (Mishlèy 12:10). L’ebraismo considera gli animali come esseri senzienti. Potrebbero non pensare o parlare, ma hanno sentimenti. E la crudeltà verso gli animali, per quanto possibile, deve essere evitata». Ed è proprio Rav Sacks, esimia autorità spirituale e morale ebraica ortodossa in Gran Bretagna, scomparso nel 2020, che su questo tema ha molto da dire.

Non essere crudele con gli animali

«Nella parashà Ki Tetzè, – spiega il rabbino – leggiamo: ‘Non mettere la museruola al bue mentre trebbia’ (Devarìm 25:4). Ciò che colpisce di questa mitzvà è il parallelismo con le disposizioni per gli esseri umani: ‘Quando verrai [a lavorare] nella vigna del tuo prossimo, potrai mangiare tutta l’uva che desideri per saziare la tua fame’ (Devarìm 23:25 – 26). Il principio è lo stesso in entrambi i casi: è crudele impedire a chi lavora con il cibo di mangiarne un po’.

Le leggi parallele inviano un messaggio chiaro: gli animali, e non solo gli esseri umani, hanno dei sentimenti e devono essere trattati bene». Sulla stessa linea, «un’altra mitzvà recita: ‘Non arerai con un toro e un asino aggiogati insieme’ (Devarìm 22:10). Il bue è più forte di un asino, e aspettarsi che l’asino corrisponda al lavoro di un bue è crudele». C’è poi un’altra mitzvà su cui molto è stato scritto a commento: ‘Qualora per caso ti capitasse davanti, per strada, il nido di un uccello, su qualsiasi albero oppure per terra e contenga pulcini o uova e la madre li stia covando, non devi prendere la madre da sopra i figli. Puoi prendere i piccoli, ma assicurati di lasciare andare via la madre, affinché ti vada bene e tu possa avere una lunga vita’ (Devarìm 22:6–7).

Qui riportiamo solo alcuni punti del commento di rav Sacks, che riguardano gli scritti di Maimonide [Mishnah (Berakhot 5:3, Megillah 4:9) Mishneh Torah (Tefillah 9:7)]. Il grande talmudista medievale scrive, in un contesto ben più ampio e complesso, che “se il motivo per mandare via la madre dal nido fosse la misericordia divina verso gli animali, allora, in coerenza, D-o avrebbe dovuto proibire di uccidere gli animali per cibarsene”. Questa è allora una delle norme che non possiamo comprendere razionalmente, che deve essere accettata solo in quanto comandamento divino e non ha nulla a che fare con la compassione. Ma nella Guida dei perplessi (3:48) «Maimonide adotta anche l’approccio opposto, rifiutando l’idea che ci siano precetti senza motivo logico, affermando che il consumo di carne è necessario alla salute umana». Maimonide prosegue il suo commento analizzando il versetto: ‘Un animale bovino, o un animale ovino o caprino, lui e suo figlio, non li scannerete nello stesso giorno’ (Vaikrà 22:28). «Qui spiega che è vietato uccidere un animale e i suoi piccoli nello stesso giorno, per evitare che un cucciolo venga ucciso davanti agli occhi della madre, perché il dolore degli animali in tali circostanze è molto grande», adottando in questo caso la compassione quale motivo alla base del precetto. «In altri passi della Guida dei Perplessi (3:17), – continua rav Sacks – Maimonide prende tuttavia anche una terza posizione, partendo dalla considerazione che la provvidenza divina si estende ai singoli individui solo in relazione agli esseri umani, ma nei confronti degli animali si estende solo alle specie. Il motivo per cui non dobbiamo causare dolore agli animali […] è allora nel nostro interesse: gli esseri umani non devono essere crudeli». Rav Sacks ricorda anche che «i nostri Saggi dettano la regola che proibisce di arrecare dolore a un animale traendola direttamente dalla Torah, dal versetto che riporta le parole dell’angelo a Balaam: ‘Perché hai picchiato la tua asina?’ (Bamidbar 22:32). Lo scopo di questa regola è forgiare i nostri comportamenti in modo da non assumere abitudini crudeli». Infine, sottolinea che «anche gli animali fanno parte della creazione di D-o. Hanno la loro integrità nello schema delle cose. Come sappiamo dalla parashà di Shofetìm, in Devarim, D-o ci dà il mandato di ‘sottomettere’ e ‘governare’ la creazione, inclusi gli animali, ma ci dà anche la responsabilità di ‘servire’ e ‘custodire’. Gli animali possono non avere diritti, ma hanno sentimenti e dobbiamo rispettarli se vogliamo onorare il nostro ruolo di partner di D-o nella creazione. […] Abbiamo dei doveri nei loro confronti. I valori di rettitudine, giustizia, gentilezza amorevole e compassione non si applicano così solo agli esseri umani. Una società basata su questi valori li dedicherà anche agli animali. […] Gli animali domestici offrono allora la grande opportunità di coltivare un rapporto diretto e adeguato con un animale, favorendo la sensibilità ai suoi bisogni, fatto che aiuta a sviluppare il proprio carattere etico e morale. Un animale domestico può così aumentare l’amore e la compassione in una famiglia, a beneficio di tutti i suoi membri». (Tradotto e adattato da RabbiSack.org, Animal Welfare di Rav Jonathan Sacks, ndr).

Il pensiero di Rav Kook

Impossibile a questo punto citare tutti gli studiosi, scrittori, filosofi, religiosi del mondo ebraico che hanno trattato o commentato il tema uomo-animale in ogni varietà e complessità. Tra i più noti, ricordiamo Rav Abraham Yitzchaq Kook, tra i rabbini più influenti del XX secolo, primo rabbino capo ashkenazita di Eretz Israel all’epoca del Mandato britannico nonché halakhista innovativo. Kook non mangiava infatti carne se non durante le festività ebraiche e molto si è occupato del rapporto fra vegetarianismo e legge ebraica (A Vision of Vegetarianism and Peace). Ma basti pensare anche ad Albert Einstein, noto vegetariano («Sono diventato vegetariano per ragioni etiche, oltre che salutistiche. Credo che il vegetarismo possa incidere in modo favorevole sul destino dell’umanità»). Così come Isaac Bashevis Singer, per il quale il benessere animale va garantito: «Sono convinto che gli animali siano creature di Dio esattamente come lo sono gli esseri umani – sosteneva il Nobel -. E noi dobbiamo rispettarli e amarli, invece di macellarli». Noto anche un altro Singer, di nome Peter, che per ironia porta lo stesso cognome di Isaac Bashevis, quel Peter Singer filosofo antispecista della Liberazione animale, fautore della linea della “parità” tra uomini e animali, criticato aspramente per certe sue tesi estreme e provocatorie che hanno portato un forte disagio e malumore in ambienti ebraici e non solo. Non ultimo, tra le generazioni più giovani, scrittori come Jonathan Safran Foer, che nel suo libro cult Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? (Guanda, 2010), svolge un’indagine minuziosa sugli allevamenti intensivi, le violenze sugli animali, i venefici trattamenti a base di farmaci e come vengono uccisi per diventare il nostro cibo quotidiano.

Il Canto della Creazione

Chiudiamo ricordando quel testo meraviglioso che è il Perek Shirà, il Canto della Creazione, opera mistica di età alto medievale, disponibile in italiano a cura di Yarona Pinhas (Pereq Shirà. Il capitolo del canto, ed. Salomone Belforte 2011), in cui si osserva come ogni creatura elevi la sua lode a D-o in una straordinaria sinfonia di lode tributata a Lui da ogni elemento dell’universo; un canto di ringraziamento, una somma preghiera, da parte di ogni singola realtà creata, e specialmente da chi è vivente e possiede la capacità di provare sensazioni ed emozioni: animali, vegetali, alberi, agenti atmosferici e insetti. «La tradizione ebraica, dal Tanakh alla contemporaneità, insegna tanto la vicinanza e la continuità dell’essere umano al mondo animale, sì che alcuni animali risultano simbolici o allusivi rispetto alla personalità umana, sia la distanza e la discontinuità tra uomo e natura. È il doppio binario, che non vai mai divelto, del dominio sulla natura e della cura per la realtà creata, così come comandato nella Genesi. – spiega Vittorio Robiati Bendaud che aggiunge – Come ricorda Nehama Leibowitz, in sede di commento al primo capitolo della Genesi, D-o ugualmente benedisse i pesci e gli esseri umani. La differenza è che il testo biblico, in relazione agli esseri umani, aggiunge che D-o glielo ha detto di essere benedetti. Ed è una differenza fondamentale».

Il Midrash di Rabbì Yehuda HaNasi e il vitellino che cercava protezione

Un giorno, mentre il rabbino Yehuda HaNasi camminava nella piazza del mercato, un giovane vitello si liberò dal suo padrone e si rifugiò proprio sotto al mantello che indossava Yehuda HaNasi. Quel giorno il vitello stava per essere condotto al macello e, piangendo, guardò Rabbi Yehuda con occhi imploranti mentre si nascondeva tra le pieghe del suo mantello. Il rabbino disse all’animale: “Vai, e fatti macellare, per questo sei stato creato”! In quel momento, gli angeli in Cielo dichiararono: “Dato che Rabbi Yehuda HaNasi non ha provato compassione per il vitello, lascia che sia lui stesso a soffrire!” Da quel momento il rabbino patì di un dolore terribile, finché, tredici anni dopo, accadde un altro evento. Quel giorno la sua domestica stava spazzando la casa, quando trovò una famiglia di donnole che vi si erano rifugiate. Cominciò a spazzare per mandarle fuori di casa, quando il rabbino Yehuda HaNasi la fermò e dichiarò: “Lasciale stare! Nei Tehillim è scritto che ‘il Signore è buono con tutti. Egli mostra misericordia a tutte le sue creature!’ (Tehillim 145:9)”. Gli angeli in cielo allora dissero: “Poiché adesso ha mostrato compassione, gli mostreremo compassione”, e da quel giorno il suo dolore finì [guarì]. (Adattato dal Talmud Bavli, Bava Metzia 85°).

 

Umani e animali: come vivere insieme

di Sofia Tranchina

Come si applica nella convivenza domestica il precetto di riservare sempre un riguardo speciale agli animali? Cresciuti in una famiglia americana modern ortodox, Avigayil Kelman e suo fratello Barli, figli di un rabbino, sono abituati sin da bambini a vivere in casa con degli animali. «Per questo – racconta Avigayil – non ho mai pensato che il cane non fosse kadosh e di non poter fare una preghiera davanti a lui». Trasferitasi a Milano, Avigayil si è portata il suo levriero, Modugno: «per me è un membro della famiglia, con lui ho un rapporto intimo e personale. Quando torno da una cena di Shabbat e a casa ho le luci spente, e mi viene incontro per salutarmi, mi sento subito più tranquilla. Così ho sempre un buon motivo per tornare a casa felice, anche adesso che vivo da sola. Anche Sukkot è più bello con lui che corre per la sukkà: penso che un cane possa arricchire la vita ebraica». Alcuni sostengono infatti che avere un animale sia persino incoraggiato dall’ebraismo per affinare la compassione. È detto in Esodo 2, 5: «Se tu scorgi l’asino del tuo nemico che soccombe sotto il proprio carico, guardati bene dall’abbandonarlo; al contrario lo aiuterai a scaricarlo». Non per nulla, nella scelta di una moglie per Isacco, Avraham istruì il suo servo di portare una donna che usasse pietà non solo verso l’uomo ma anche nei confronti dei cammelli, ovvero colei che avesse detto: «bevi pure, darò da bere anche ai tuoi cammelli».

Barli spiega che «Nel prendersi cura di un animale, indovinandone e anticipandone i bisogni, l’uomo impara ad assumersi la responsabilità per un’altra creatura, che estende poi al mondo esterno in generale. Questo senso di responsabilità – che d’altronde è tra i primi comandamenti dati nell’Eden («dominate i pesci del mare, i volatili del cielo e tutti gli animali che pullulano sulla terra», Genesi 1, 28) – si manifesta proprio quando una famiglia ebraica adotta un animale». «Siccome l’animale non può parlarti come un uomo – aggiunge Avigayil – devi stare più attento ai segnali. Io e il mio cane abbiamo come un linguaggio nostro, che mi porta a sviluppare l’abilità di osservazione e l’attenzione ai sentimenti dell’altro». Barli ci racconta quindi di quando da piccolo, grazie al suo gatto, ha imparato a empatizzare con gli animali: «Negli USA era vietato avere un animale non castrato, ma nell’ebraismo la castrazione è vietata. Allora i miei genitori sono scesi a compromessi e abbiamo venduto il gatto ai vicini affinché questi lo facessero castrare, per poi ricomprarlo. È stato traumatico, perché quando l’ho rivisto il gatto era turbato e pieno di dolori. Gli volevo bene e mi faceva male vederlo così in pena per colpa nostra».

Nel riconoscimento del loro dolore, gli animali vengono posti sullo stesso piano dell’uomo. Nel Qohelet 3, 19 è scritto appunto che «La sorte degli uomini e la sorte degli animali è per essi una sorte unica, come muore questi così muore quello, tutti hanno lo stesso alito vitale, e l’uomo in nulla è superiore all’animale». Come spiega rav Levi Shaikeviz, benché «tutti gli animali sono creature di Hashem», alcuni ritengono che quelli kasher sarebbero più adatti a esercitare la propria influenza sull’uomo, e quindi – siccome un bambino «assorbe dentro di sé quello che vede intorno a sé» – più adatti ad apparire negli ambienti dedicati ai bambini (sillabari, graffiti sulle mura delle scuole…). Eppure, adottare un animale pone ancora non pochi quesiti a chi voglia condurre una vita religiosa. Per quanto riguarda il cibo, spiega rav Shaikeviz, siccome i cani non hanno abbaiato ad Am Israel in fuga dall’Egitto, questi vanno ricompensati con le parti della carcassa shachtata escluse dalla tavola kasher.

Dunque, le questioni di kasherut non si applicano agli animali, ad eccezione delle misture di carne e latte cotti insieme, dalle quali è proibito trarre vantaggio anche per via indiretta. Di Pesach, il problema del possesso di chametz è facilmente raggirabile con la vendita dell’alimento a un vicino non ebreo, o con la sostituzione con un cibo kasher-le-Pesach per gli otto giorni della festività. Il Talmud (Shabbat 128b) stabilisce poi che gli animali sono mukze, separati, ovvero che – non avendo alcun uso specifico ai fini del Yom Tov – siano da ritenersi al pari di soldi e pietre, e quindi subiscano la proibizione rabbinica di essere toccati durante lo Shabbat. Ciò perché anticamente gli animali erano prevalentemente da lavoro, associati alla fatica e incompatibili con il riposo sabbatico, o al limite gatti per eliminare i topi e i serpenti. In un contesto in cui sempre più gli animali sono da compagnia, invece, e vivono nelle nostre case come veri e propri componenti della famiglia, non più atti a servirci ma piuttosto a confortarci (interrompendo ad esempio il pianto di un bambino), i Rishonim concordano sul fatto che non sono più da considerarsi mukze.

Rav Moshe Feinstein si interroga inoltre sulla possibilità di portare degli animali, e nello specifico cani, nelle sinagoghe. In Igros Moshe (Orach Chaim, 45) scrive che, sulla base di un passaggio del Talmud Yerushalmi, «in caso di necessità e quando non c’è altra opzione, un cieco può entrare nella sinagoga con il suo cane guida». Questo ovviamente, se «non ci sono alternative, il cane è addestrato, e i fedeli nella sinagoga non lo temono» (altrimenti è «preferibile lasciare il cane fuori»). Come scrive Rabbi Yaakov Sasson, inoltre, a partire dalla premessa che la santità del Monte del Tempio di Gerusalemme è superiore a quella delle nostre sinagoghe, «dal momento che l’intera nazione ebraica sarebbe salita sul Monte del Tempio con i propri animali per offrirli in sacrificio sull’Altare – per venderli ad altri ebrei durante il pellegrinaggio triennale al Bet Hamikdash, come spiega la Mishnah in Shekalim 7 – possiamo dedurre che è lecito portarli anche nelle sinagoghe». Infatti, non troviamo alcun divieto specifico di portare un cane nella sinagoga nelle opere dei Poskim (i decisori sulle questi di halachà). Non sarebbe poi proibito portare a spasso i propri cani di Shabbat, in quanto altrimenti questi si agiterebbero e soffrirebbero. L’importante è che il guinzaglio rimanga sempre teso, spiega rav Shaikeviz, «perché il guinzaglio fa parte dell’abbigliamento necessario, purché tutto il filo venga usato per quel fine, ovvero sia allacciato da entrambe le estremità», e, poi – aggiunge Avigayil ammiccando – «non sono io a portare il mio cane, ma è in realtà lui a portare me, e io lo seguo!». Per non trasportare i sacchettini igienici da casa propria, Avigayil svela il suo trucco: ha addestrato il suo cane ad attendere di trovarsi nell’area cani, dove può servirsi dei sacchettini gratuiti delle cassette pubbliche. Inoltre, spiega rav Shaikeviz, «è permesso di Shabbat nutrire gli animali che dipendono dagli ebrei per il proprio sostentamento», così come sarebbe permesso nutrire un bambino. Anzi, vige persino la regola di nutrirli prima di se stessi, in quanto Hashem dice al popolo d’Israele: «Farò crescere l’erba nel tuo campo per il tuo bestiame e tu potrai mangiare e saziarti», ponendo per primo il nutrimento del bestiame e per secondo quello dell’uomo (d’altronde nella Genesi è detto che Hashem creò prima gli esseri acquatici e i volatili, il quarto giorno, e poi gli animali domestici, i rettili e le bestie selvatiche, il quinto giorno, e solo per ultimo l’uomo). E per chi ancora temesse di incorrere in una melacha, è possibile usare distributori automatici che rilasciano i croccantini agli orari stabiliti.

 

Midrash: La mucca che rispettava Shabbat e i pesci di Barli Kelman

Il Midrash della mucca che rispettava Shabbat mostra come anche gli animali vengano coinvolti dalla vita ebraica. Si narra che un giorno un gentile avrebbe acquistato una mucca da un ebreo per svolgere dei lavori. La mucca, tuttavia, tutti i venerdì al tramonto cessava di lavorare, e ricominciava soltanto di domenica. Il contadino allora tornò dall’ebreo a lamentarsi per l’animale pigro che gli era stato venduto, e questi gli spiegò che la mucca non era affatto pigra, ma aveva imparato a rispettare lo Shabbat. Il contadino rimase talmente impressionato dalla diligenza della mucca nel ricordarsi il giorno del riposo, che si convertì all’ebraismo e fu chiamato Jonathan Ben Torta (“Figlio della Mucca”). D’altronde è detto nella Torah che durante lo Shabbat non bisogna far lavorare «né il tuo bue, né il tuo asino, né alcun animale» (Deuteronomio 5, 12-15). Barli Kelman ci conferma che anche i suoi pesci partecipano allo Shabbat: «ad esempio, siccome di sabato lascio la luce sempre accesa, ho una stoffa scura con scritto Shabbat Shalom con cui copro il loro acquario, così che possano dormire indisturbati».