Dare un senso alla propria vita (ebraica): due storie esemplari legate dalla stessa città, Trieste

Libri

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture] Scrivere la storia della propria famiglia è diventata una passione diffusa nell’ebraismo italiano. Si può certamente criticare questa tendenza, perché essa segnala un impegno più rivolto al passato che al presente dell’ebraismo. Ma io credo che essa corrisponda a un bisogno vero o forse più d’uno, quello di comprendere la propria identità ebraica, quello di rendere merito e onore ai nostri avi che ce l’hanno trasmessa, e anche quello di sforzarci di perpetuarla trasmettendo ai nostri discendenti il percorso da cui provengono, la specificità e il valore dell’esperienza ebraica. Lo dico con cognizione di causa, perché anch’io mi sono messo in questa impresa.

Oggi voglio parlare di due libri che interpretano in maniera molto diversa questa esigenza, anche perché si tratta di due famiglie molto diverse, sebbene entrambe legate alla stessa città di Trieste. Uno è In barba a H. (Bompiani) di Oliviero Stock, dove la lettera H sta per l’insieme dei nemici genocidi di Israele, da Amalek a Hitler. Stock è un grande scienziato che ha diretto per molti anni il centro di intelligenza artificiale di Trento. Nel libro racconta della sua vasta famiglia, radicata fra Vienna, la Cecoslovacchia, Spalato, raccontando il modo in cui i suoi antenati sono riusciti a costruire una condizione sociale di ottimo livello, soprattutto nell’industria tessile, e come poi, quando il loro mondo di buoni borghesi mitteleuropeo è crollato sotto la barbarie nazista, sono riusciti a sfuggire alle persecuzioni e allo sterminio. È perciò un libro più avventuroso che tragico, nonostante il contesto, da cui emergono caratteri forti e storie coinvolgenti. In particolare colpisce il diario della fuga rocambolesca del bisnonno in mezzo all’Europa centrale battuta dalle bande naziste. È una storia di resistenza e di sopravvivenza di un nucleo familiare, ma anche di distruzione del terreno su cui esso si fondava e delle sue realizzazioni. Le pagine che fanno più riflettere sono quelle che raccontano in prima persona le ricerche dell’autore e la difficoltà di ritrovare le tracce del passato, sepolte da un tempo che ha rimosso tanto la carneficina che l’eroismo.

 

Un altro libro del tutto diverso è quello di Rossella Levi, Fra storia e memoria (Giuntina), in cui si racconta di un nucleo familiare molto più ristretto e di condizione assai modesta, che subisce l’impatto pieno del nazismo cui i fascisti avevano ceduto il pieno controllo della città di Trieste, fino a perdere nel giugno del 1944 il capofamiglia Alberto. Fra i suo figli uno riesce a immigrare nel Mandato Britannico ed è fra i fondatori del kibbutz religioso di Sde Elyahu, nella valle del Giordano. L’altro fugge a Parigi, è arruolato nella Legione Straniera, poi reclutato dagli inglesi e riportato in Italia; fa il radiotelegrafista di un gruppo partigiano a Firenze, sfuggendo per un pelo alla cattura. La sua vicenda è rocambolesca e amara per le difficoltà di realizzare le proprie scelte antinaziste, che spesso vengono contrastate proprio da coloro che dovrebbero essere dalla sua parte. Anche questa storia contiene dunque un insegnamento amaro sulla difficoltà di definire e soprattutto di far riconoscere il proprio ruolo, sulla solitudine ebraica, al di là degli schieramenti politici.
In entrambe queste storie di famiglia, al di là della grande divisione fra persecutori e perseguitati, è difficile stabilire delle regole semplici di comportamento, delle strategie identitarie esemplari, anche delle ricette di sopravvivenza. Il caso ha una gran parte nel determinare l’esito di scelte compiute in condizioni difficilissime. Resta il ricordo di uomini e di donne che nel momento più difficile assunsero le loro responsabilità e fecero tutto quel che poterono non solo per sfuggire al nazismo, ma soprattutto per non tradirsi e per dare senso alla propria vita.