Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Una delle scene più ironiche della storia anglo-ebraica si verificò il 14 ottobre 1663. Erano passati solo sette anni da quando Oliver Cromwell (1599-1658 condottiero e politico inglese) non aveva trovato alcun ostacolo legale contro gli ebrei che vivevano in Inghilterra. Una piccola sinagoga fu aperta a Creechurch Lane nella City di Londra, precursora di Bevis Marks (1701), il più antico luogo di culto ebraico ancora esistente in Gran Bretagna.
Il famoso diarista Samuel Pepys (politico scrittore inglese 1633-1703) decise di visitare questa nuova sinagoga, per vedere come si comportavano gli ebrei in preghiera. Quello che vide lo stupì e lo scandalizzò. Per caso o per provvidenza, il giorno del suo arrivo era Simchat Torah. Così ha descritto ciò che ha visto: “Le loro leggi che tirano fuori dalla stampa [cioè l’Arca] sono portate da più uomini, quattro o cinque diversi fardelli in tutto, che si alleviano a vicenda; ognuno desidera averne il trasporto, non so dirlo, così lo portavano in giro per la stanza mentre un tale cantava.. Ma, Signore! Vedere il disordine, il ridere, e nessuna attenzione, ma la confusione in tutto il loro servizio, più simili a bruti che a persone che conoscono il vero Dio, farebbe giurare a un uomo di non volerli vedere mai più e in effetti non ho mai più visto così tanto o potrei, ho immaginato, aver pensato che ci fosse stata una religione in tutto il mondo così assurdamente eseguita come questa”.
Questo non era il tipo di comportamento a cui Pepys era abituato in un luogo di culto.
C’è qualcosa di unico nel rapporto degli ebrei con la Torah, il modo in cui stiamo alla sua presenza come se fosse un re, balliamo con essa come se fosse una sposa, la ascoltiamo mentre racconta la nostra storia e la studiamo, mentre noi diciamo nelle nostre tefilloth come “la nostra vita e la lunghezza dei nostri giorni”. Ci sono poche righe di preghiera più toccanti di quelle contenute in una poesia che leggiamo a Neilah, alla fine dello Yom Kippur: Ein shiyur rak haTorah hazot – “Non resta niente”, dopo la distruzione del Tempio e la perdita della terra, “ma resta questa Torah”. Un libro, un rotolo, era tutto ciò che si frapponeva tra gli ebrei e la disperazione.
Ciò che i non ebrei (e talvolta gli ebrei) non riescono ad apprezzare è come, nel giudaismo, la Torah rappresenti la legge come amore e l’amore come legge. La Torah non è solo “legislazione rivelata”. Rappresenta la fede di Dio nei nostri antenati ai quali Egli ha affidato loro, la creazione di una società che sarebbe diventata una casa per la Sua Presenza e un esempio per il mondo.
Una delle chiavi di come questo ha funzionato è contenuta nella parashà di Bamidbar, letta sempre prima di Shavuot, il giorno che ricorda il dono della Torah. Questo ci rammenta quanto sia centrale l’idea di deserto (la terra di nessuno) per il giudaismo. È midbar, deserto, che dà il nome alla nostra parashà e al libro nel suo insieme. Fu nel deserto che gli israeliti, una nazione, fecero un patto con Dio e ricevettero la Torah, la loro costituzione sotto la sovranità di Dio. È il deserto che fa da cornice a quattro dei cinque libri della Torah, ed è lì che gli israeliti sperimentarono il loro più intimo contatto con Dio, che mandò loro acqua da una roccia, manna dal cielo e li circondò di Nubi di Gloria.
Quale storia ci viene raccontata qui? La Torah ci parla di tre fondamenti dell’identità ebraica. Il primo è il fenomeno unico che, nel giudaismo, la legge ha preceduto la terra. Per ogni altra nazione nella storia è avvenuto il contrario. Prima venne la terra, poi gli insediamenti umani, prima in piccoli gruppi, poi in villaggi, paesi e città. Poi vennero le forme di ordine e governo e un sistema giuridico: prima la terra, poi la legge.
Il fatto che nel giudaismo la Torah fosse data a bemidbar, nel deserto, prima ancora che fossero entrati nella terra, significava che gli ebrei e il giudaismo in modo unico potesse sopravvivere, la loro identità fu intatta, anche in esilio. Perché la legge è venuta prima della terra, anche quando gli ebrei persero la patria. Ciò significa che, anche in esilio, gli ebrei erano ancora una nazione. Dio rimase il loro sovrano. Il patto era ancora in vigore. Anche senza una geografia, avevano una storia in corso. Anche prima che entrassero nel paese, agli ebrei era stata data la possibilità di sopravvivere al di fuori di questo.
In secondo luogo, c’è una connessione allettante tra midbar, “deserto” e davar, “parola”. Laddove altre nazioni trovarono gli dei nella natura – la pioggia, la terra, la fertilità e le stagioni dell’anno agricolo – gli ebrei scoprirono Dio in trascendenza, al di là della natura, un Dio che non si vedeva ma si ascoltava. Nel deserto non c’è natura. C’è il vuoto e il silenzio, in cui si può sentire la voce ultraterrena dell’Uno-oltre-il-mondo. Come disse Edmond Jabès (1912-1991 poeta francese): “La parola non può dimorare se non nel silenzio di altre parole. Parlare è, di conseguenza, appoggiarsi a una metafora del deserto”.
Il politologo tedesco-americano Eric Voegelin (1902-1985) vide questo come fondamentale per la forma completamente nuova di spiritualità nata nell’esperienza degli israeliti: “Quando intraprendiamo l’esodo e vaghiamo nel mondo, per fondare una nuova società altrove, scopriamo il mondo come il deserto. Il volo non porta da nessuna parte, finché non ci fermiamo per orientarci oltre il mondo. Quando il mondo è diventato Deserto, l’uomo è finalmente nella solitudine in cui può udire tonante la voce dello spirito che con il suo sussurro incalzante lo ha già scacciato e salvato dallo Sheol [il dominio della morte]. Nel deserto Dio parlò al capo e alle sue tribù; nel deserto, ascoltando la voce, accogliendone l’offerta e sottomettendosi al suo comando, avevano finalmente raggiunto la vita ed erano diventati il popolo eletto da Dio”.
Nel silenzio del deserto Israele è diventato il popolo per il quale l’esperienza religiosa primaria non è stata vedere, ma ascoltare: Shema Yisrael. Il Dio d’Israele si è rivelato a parole. L’ebraismo è una religione di parole sante, in cui l’oggetto più sacro è un libro, un rotolo, un testo.
Terzo, e il più notevole, è l’interpretazione che i profeti diedero a quegli anni formativi in cui gli israeliti, avendo lasciato l’Egitto e non ancora entrati nel paese, erano soli con Dio. Osea, predicendo un secondo esodo, dice in nome di Dio riguardo agli israeliti: “La condurrò nel deserto e le parlerò teneramente… Là lei risponderà come nei giorni della sua giovinezza. Come il giorno in cui uscì dall’Egitto. (Osea 2:14-15)
Geremia dice in nome di Dio: “Ricordo la devozione della tua giovinezza, come sposa mi hai amato e mi hai seguito attraverso il deserto, attraverso una terra non seminata”. (Geremia 2:2)
Shir HaShirim, Il Cantico dei Cantici, contiene il verso: “Chi sta salendo dal deserto appoggiandosi al suo amato?” (Shir HaShirim 8:5)
Comune a ciascuno di questi testi è l’idea del deserto come luna di miele, in cui Dio e il popolo, immaginato come sposo e sposa, stavano insieme soli, consumando la loro unione nell’amore. A dire il vero, nella stessa Torah vediamo gli israeliti come un popolo recalcitrante e ostinato che si lamenta e si ribella a Dio. Eppure i Profeti in retrospettiva vedevano le cose in modo diverso. Il deserto era una specie di yichud, un’unità solitaria, in cui il popolo e Dio si univano nell’amore.
Il più istruttivo in questo contesto è il lavoro dell’antropologo Arnold Van Gennep (1873-1957) che concentrò l’attenzione sull’importanza dei riti di passaggio. Le società sviluppano rituali per segnare il passaggio da uno stato all’altro – dall’infanzia all’età adulta, per esempio, o dall’essere single all’essere sposati – coinvolgendo tre fasi. La prima è la separazione, una rottura simbolica con il passato. L’ultima è l’incorporazione, il rientro nella società con una nuova identità. Tra le due arriva la fase cruciale del passaggio quando, essendo stato spogliato di un’identità, ma non ne hai ancora indossata un’altra, è come se in in certo senso rinasci, vieni ricreato e rimodellato.
Van Gennep ha usato il termine liminale, dalla parola latina per “soglia”, per descrivere questo stato di transizione quando ci si trova in una specie di terra di nessuno tra il vecchio e il nuovo. Questo è ciò che il deserto significa per Israele: spazio liminale tra schiavitù e libertà, passato e futuro, esilio e ritorno, Egitto e Terra Promessa. Il deserto era lo spazio che rendeva possibile la transizione e la trasformazione. Là, nella terra di nessuno, gli israeliti, soli con Dio e tra di loro, potevano spogliarsi di un’identità e assumerne un’altra. Là potevano rinascere, non più schiavi del Faraone, ma servi di Dio, chiamati a diventare “un regno di sacerdoti e una nazione santa”. (Esodo 19:6)
Vedere il deserto come uno spazio di mezzo ci aiuta a vedere la connessione tra gli israeliti ai giorni di Mosè e l’antenato di cui portavano il nome. Perché fu Giacobbe, tra i patriarchi, ad avere le sue più intense esperienze con Dio nello spazio liminale, dal luogo dal quale partiva e quello verso cui si recava, da solo e di notte. Fu là, in fuga da suo fratello Esaù, ma non ancora non arrivato alla casa di Labano, che ebbe una visione di una scala che si estende dalla terra al cielo con angeli che salivano e scendevano, e là, al suo ritorno, combatté con uno straniero di notte fino all’alba e gli fu dato il nome di Israele.
Questi episodi possono ora essere visti come prefigurazioni di ciò che sarebbe poi accaduto ai suoi discendenti (ma’aseh avot siman levanim, “gli atti dei padri sono un segno di ciò che sarebbe poi accaduto ai figli”).
Il deserto è diventato così il luogo di nascita di un rapporto del tutto nuovo tra Dio e l’umanità, un rapporto costruito sull’alleanza, la parola e l’amore come si concretizza nella Torah. Lontano dai grandi centri di civiltà, un popolo si trovò solo con Dio e lì consumava un legame che né l’esilio né la tragedia potevano spezzare. Questa è la verità morale al centro della nostra fede: non è il potere o la politica che ci legano a Dio, ma l’amore.
La gioia nella celebrazione di quell’amore portò il re Davide a “saltare e ballare” quando l’Arca fu portata a Gerusalemme, guadagnandosi la disapprovazione della figlia del re Saul, Michal (2 Samuele 6:16), e molti secoli dopo guidò gli anglo-ebrei di Creechurch Lane a ballare a Simchat Torah, con disapprovazione di Samuel Pepys. Quando l’amore sconfigge la dignità, la fede è viva e vegeta.
Di rav Jonathan Sacks zl
Shabbat Jerushalaim 19.05-20.23
Shabbat Tel Aviv 19.25-20.26
Shabbat Roma 20.22-21.23
Shabbat Milano 20.50-22.04