di Marina Gersony
Se ne è andato all’improvviso, lo scorso 22 maggio, nel giorno del suo ottantesimo compleanno. Con Meir Miro Silvera – scrittore ecclettico, saggista, poeta e traduttore italiano – nato in Siria – scompare un personaggio noto della vita culturale milanese e internazionale, ma anche un amico molto speciale per tutti coloro che lo hanno stimato e gli hanno voluto bene. Negli ultimi anni lo si poteva incontrare ogni domenica mattina al Bar Pippo, un piccolo chiosco informale immerso nel verde dei Giardini Pubblici di Milano. Un appuntamento che non saltava quasi mai. Bastava presentarsi verso le undici per trovarlo in compagnia di un certo milieu culturale e degli amici storici , tra i quali Fiona Diwan, Dario Diaz, Renzo e Elena Modiano, Claudia e Colette Shammah, Laura Lepetit, Filippo Tuena, Giovanna Rosadini Salom, Elisabetta e Susanna Zevi, Cecilia Chailly, Bamboo Hirst, Angela Giannini Pagani Donadelli, Emma Treves e altri ancora. Miro era il vero collante del gruppo, gran maestro nella tessitura di reti affettive e amicali. Si parlava di tutto, si passava da un argomento all’altro, dal frivolo, al letterario, al sociale, in una bouillabaisse di parole da far girar la testa. Ogni volta portava un libro che scartava impaziente per discuterne insieme agli amici. Generoso, dispensatore di aneddoti e racconti curiosi, amava i libri, la musica e il cinema di cui era un fine conoscitore; libri che valorizzava con il nobile tentativo di animare un panorama editoriale un po’ offuscato dalla furia digitale degli ultimi decenni. La sua era di fatto una battaglia personale per cercare di dare nuova linfa vitale a coloro che definiva tout court degli «intellettuali stanchi».
Tra i fondatori del Salone Pier Lombardo di Milano – oggi Teatro Franco Parenti diretto da Andrée Ruth Shammah – Miro Silvera, nato ad Aleppo nel 1942, si era trasferito a Milano nel 1947 con la famiglia dopo l’ondata di feroci persecuzioni contro gli ebrei. Qui aveva frequentato la scuola ebraica e la facoltà di Economia e Commercio in Bocconi, lavorando contemporaneamente al Piccolo Teatro di Grassi-Strehler, dove aveva riordinato l’archivio storico e tenuto la segreteria degli Amici del Piccolo. Un legame saldissimo con la metropoli lombarda che non aveva tuttavia soppiantato le radici aleppine, il Halab delle origini e quelle ancor prima iberiche alle quali lui, l’expat, il fiero ebreo sefardita e cosmopolita, era rimasto intimamente ancorato. Non a caso l’esilio, le antiche erranze e il fascino di un Medio Oriente perduto e sublimato, erano diventati i paradigmatici protagonisti dei suoi romanzi. Profondamente religioso di una fede mai esibita, aveva combattuto con la parola scritta ogni forma di antisemitismo in un percorso deciso e personale: «Beh, volete proprio che ve lo dica? Vivere da ebreo significa vivere in trincea […]. Intingerò la penna nel veleno di un cuore offeso. Dapprima mi sono dato il tempo di tacere e di osservare. La mia tregua la dichiaro finita». (Contro di noi, Frassinelli).
Raffinato, elegante, spiritoso, acuto e con quell’aria dolcemente schiva e distaccata, Silvera aveva una personalità sfaccettata e molti talenti, tanto da renderlo difficilmente incasellabile. Si era confrontato con artisti, cineasti e scrittori di ogni dove, personaggi mitici come Samuel Fuller, Frank Capra, Alida Valli, Peter Weiss, Marco Ferreri, Franco Rosi, Ettore Scola, Franca Valeri, Peter Brook, era amico della coppia Ettore Sottsass-Fernanda Pivano, di Herbert Pagani, Renato Boeri, Goffredo Parise, Giuseppe Pontiggia e Paolo Volponi. Era stato uno degli animatori e personaggi di punta della leggendaria Milano Libri di Anna Maria Gandini, punto di riferimento del fermento culturale milanese degli anni Sessanta e Settanta. Poliglotta per ragioni biografiche, passava con disinvoltura dall’italiano, al francese e all’inglese che infarciva con espressioni in ebraico o in arabo che gli conferivano un’allure esotica e particolare. Perfetto padrone di casa, artista nell’anima, capitava che accogliesse gli amici avvolto in preziose vestaglie di seta offrendo il suo leggendario té al gelsomino. Ancora oggi c’è chi ricorda l’appartamento sofisticato di via Lanzone con i ricercati arredi in stile neoclassico, le pareti color turchese colme di libri, i pezzi di antiquariato, le statue, i busti, i quadri. Amava in particolare le tele dei pittori dell’Accademia russa, scoperti insieme all’amica Evelina Schatz. Sempre garbato, disponibile, sapeva ascoltare, sapeva incoraggiare, sapeva sorridere. Possedeva insomma quella rara dote che i tedeschi chiamano Herzkultur, la cultura del cuore, e quell’educazione d’altri tempi inusuale nel nostro mondo sovraeccitato. Per questo lo amavano tutti. Guai però a scambiare un eccesso di cortesia per debolezza. Le sue ire, peraltro rare, significavano che il limite era stato superato. In quei casi lo sguardo liquido verde-acqua virava verso un colore indefinito, segnale per l’interlocutore che era giunto il momento di tacere.
Così come amava parlare di ogni cosa, disprezzava i social media, secondo lui i veri killer del pensiero articolato; allo stesso modo detestava l’aggressività verbale, l’eloquio tracimante e la maldicenza, in ebraico lashon hara, termine halakhico per indicare un discorso denigratorio rivolto verso un’altra persona. La morte non lo spaventava, con un candore quasi infantile diceva che andava semplicemente accolta quando sarebbe giunto il momento (Non esiste / il tempo / non esiste / lo spazio / e io / di giorni / sono già / sazio, versi tratti dal suo fulminante libro di poesie Perfetti Miracoli (editore La Vita Felice). Con l’amica Manuela Pompas, nota divulgatrice nel campo della ricerca psichica e spirituale, così come con lo scrittore Marco Cesati Cassin o con l’astrologa Elena Modiano, era uso confrontarsi su temi legati all’esoterismo, l’astrologia, le discipline umanistiche, le coincidenze e i fenomeni paranormali.
Negli ultimi anni si era allontanato in punta dei piedi dal mondo letterario che sembrava averlo dimenticato senza riconoscerne fino in fondo i meriti. Aveva ancora dei progetti e tre libri nel cassetto che gli editori tenevano in sospeso. Lui faceva finta di niente e sorrideva con quella sua inconfondibile espressione ineffabile e vaga, come per ribadire che in fondo poco importa perché, alla fine, tutto scorre, tutto cambia e si trasforma, niente resta immutato. Tuttavia, soprattutto negli ultimi tempi, chi lo conosceva sapeva cogliere la fatica esistenziale nel suo sguardo e lo sconforto che lo maceravano intimamente. Per lui, che amava circondarsi di amici e colleghi, il raffronto con gli altri era diventato un peso, una sorta di supplizio accompagnato dalla delusione di chi, come un moderno Tenente Drogo, rimaneva sospeso e in perenne attesa di un qualcosa che non sarebbe più arrivato. Se ne è andato così Miro Silvera, se ne è andato ammutolito, dopo una vita operosa e zeppa di libri letti e scritti; una morte che ancora rimbomba nei cuori di chi resta. Avrebbe potuto uscire di scena solo così, proprio il giorno del suo ottantesimo compleanno, in un ultimo atto poetico e insieme tragico, come se il corpo avesse obbedito a un orologio interiore deciso di spegnersi in una geometria perfetta di numeri e date. Nella tradizione del misticismo popolare ebraico, e per chi segue gli insegnamenti del Talmud, morire nel giorno del proprio compleanno significa essere uno tzaddik, un Giusto, concludendo in modo compiuto la missione terrena concessa da Dio.
Con lui scompare un amico prezioso, un fine intellettuale e un lucido testimone del suo tempo; un uomo delicato anche se solo apparentemente fragile. Con lui se ne va l’ultimo Dandy di un tempo che non c’è più.