di Ilaria Myr
“Senza la Shoah Israele non sarebbe mai nato”. “Israele è nato dal senso di colpa dell’occidente nei confronti degli ebrei per la Shoah”. Queste sono convinzioni diffuse sul rapporto fra Israele e Shoah, che lo storico francese Georges Bensoussan ha cercato di smontare come ‘falsi miti’ durante il suo intervento intitolato ‘Vittime nel paese degli eroi’ nella mattinata della Giornata europea della cultura ebraica. Introduceva il giornalista e scrittore Niram Ferretti.
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I falsi miti
“Dopo la guerra non c’era alcun senso di colpevolezza fra gli occidentali nei confronti degli ebrei – ha spiegato -. Non lo avevano gli inglesi, che avevano di fatto combattuto Hitler (ma avevano allo stesso tempo chiuso la Palestina). Ma non lo avevano neanche gli americani: lo dimostra il fatto che il generale Marshall si fosse opposto alla proclamazione dello Stato ebraico, nel 1948. Solo Truman aveva chiesto di votare sì per lo Stato ebraico, ma semplicemente perché aveva bisogno del voto ebraico. Importante, poi, è la questione dei rifugiati ebrei. Gli inglesi non volevano mettersi contro il mondo arabo, e negli Usa c’era all’epoca un forte antisemitismo, e spingevano perché fossero gli inglesi a prenderli”.
Non solo, quindi, secondo Bensoussan, lo Stato di Israele non è nato dalla Shoah, ma il genocidio ha costituito una molteplice sconfitta per il sionismo da vari punti di vista: morale, perché non è riuscito a salvare gli ebrei d’Europa; politico, perché non è riuscito a convincere gli ebrei quando si era ancora in tempo, e demografico, perché molti sionisti che erano in Europa non sono poi andati in Israele. “Dire che Israele è nato dalla Shoah è una tesi revisionista, anzi, negazionista – afferma Bensoussan -. Perché ci sono stati ben 3 riconoscimenti giuridici della legittimità di uno Stato ebraico: nella conferenza di Sanremo (1920), in cui si parla di focolare ebraico, un riconoscimento del mandato nel 1922, e poi dall’Onu nel 1947”.
Non solo: già alla fine del 1800, alcuni fatti, oggi dimenticati, hanno portato alla costruzione dello Stato ebraico. “Senza l’yishuv sefardita, senza Eliezer Ben Yehuda, che fece nascere l’ebraico moderno, e senza la seconda alyià, dei primi del ‘900, non ci sarebbe stato lo Stato d’Israele. Basta pensare alla nascita di Tel Aviv, nel 1909, prima città israeliana dopo la distruzione del Tempio, o alla nascita di grandi istituzioni come l’Histadrut (1920), il Magen David Adom (1920), l’Haganah 1920 (divenuta poi Zahal nel’48), o l’Università Ebraica di Gerusalemme (1925)”.
Il lento percorso della memoria della Shoah in Israele
Bensoussan ha poi affrontato il tema della memoria della Shoah in Israele, ripercorrendo le diverse tappe della sua evoluzione nella coscienza collettiva del Paese.
“Dopo la Shoah arrivarono in Israele 400.000 sopravvissuti, ma la priorità del neonato Paese è costruirsi e difendersi dai nemici circostanti e non certo di occuparsi di loro e del loro stato psicologico – ha spiegato -. E poi c’è negli israeliani il senso di colpa di non avere potuto salvare gli ebrei d’Europa, che si trasforma in aggressività nei confronti dei sopravvissuti, che con la loro presenza rimandano a quel senso di colpevolezza. Dal canto loro, gli israeliani askenaziti nutrivano un aumentato senso di colpa nel vedere annientato quel loro mondo di origine che, da ferventi sionisti, avevano detestato e disprezzato. E poi, nel Paese creato sulla base dell’eroismo, c’era il senso di vergogna nei confronti di quegli ebrei che nella diaspora si erano lasciati morire “come animali al macello. L’accoglienza dei sopravvissuti, quindi, di fatto fallisce”.
La Shoah quindi tarda a diventare una memoria collettiva: le prime commemorazioni sono private, organizzate dai sopravvissuti, Yom haShoah, come giorno nazionale di commemorazione viene istituito solo nel 1951, e Yad vashem, il memoriale, solo nel 1953. “Anche se ci si stava già pensando nel 1942, quando ancora la Shoah non aveva raggiunto i suoi apici, viene creato nel 1953 solo perché a Parigi i sopravvissuti creano un memoriale”.
Si punta, però, soprattutto sulla memoria degli atti di eroismo degli ebrei: ad esempio in occasione del funerale di Hannah Senesh. “A Yom haShoah quelli che parlano sono solo i resistenti, mentre i ‘normali’ sopravvissuti restano in silenzio: perché sono schiacciati dai sentimenti di colpa e di vergogna, perché non si sentono ascoltati e perché sono tutti giovani e guardano al futuro da ricostruire”.
La svolta con il processo Eichmann
La svolta si ha con il processo Eichmann del 1961. “Ben Gurion non era favorevole al processo ma capisce che si deve rafforzare la coesione nazionale di Paese, che si deve formare una memoria comune. Il processo è però centrato sul mondo askenazita, mentre quei sefarditi che pure subirono l’invasione nazista non vengono accettati come testimoni. Si accresce così il senso di umiliazione e il divario fra i sefarditi, che erano vittime di razzismo, e gli askenaziti, oggi ancora presente nella società israeliana”.
Il processo, come è noto, ha un impatto impressionante sia a livello nazionale che internazionale: dalle parole dei testimoni si capisce davvero che cosa sia stata la Shoah, al di là degli atti di eroismo. E la Shoah diventa storia dello Stato.
Le guerre e di nuovo il senso di precarietà e abbandono
E poi ci sono la Guerra dei sei giorni, del 1967, e la guerra del Kippur, che risvegliano negli israeliani il senso di precarietà e la minaccia di essere distrutti. “Ma anche la paura di essere abbandonati: quando, nella guerra del Kippur, l’America, che fornisce armi a Israele, chiede ai Paesi della Nato di potere fare scalo per posarsi, tutti, tranne il Portogallo, rifiutano, perché già influenzati dalla pressione araba. Ma già nel 1972, con la strage delle Olimpiadi di Monaco, il senso di abbandono era stato forte”.
Parte dell’identità, davanti alla minaccia iraniana
La Shoah diventa quindi dagli anni ’70 un elemento della identità di Israele, integrato nella coscienza dei giovani israeliani. I programmi nazionali di educazione vengono modificati dandole sempre più spazio. E con la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione sovietica i sopravvissuti cominciano a volere portare i nipoti nei luoghi di origine.
“La memoria però salta una generazione: dopo il silenzio iniziale, con il passare del tempo i sopravvissuti sentono di dovere tramandare ai nipoti la propria storia, continuando però a proteggere i propri figli. E con la minaccia iraniana, il senso di precarietà è ancora ben presente”.
Oggi la Shoah è dunque onnipresente nell’identità e nella storia ebraica – Yad Vashem è il luogo più visitato insieme al Muro del Pianto – mentre si è totalmente rimosso che lo Stato di Israele è nato grazie al sionismo ben precedente allo sterminio. “Si ha una ipermnesia della Shoah – a cui molti sopravvissuti si oppongono – e un’amnesia del sionismo”, conclude Bensoussan.