di Giorgio Raccah
È il “primo governo di destra-destra” ha dichiarato Benyamin Netanyahu all’indomani delle elezioni. Una compagine politica del tutto inedita, che mira a rafforzare l’identità ebraica del Paese con un programma basato sui principi dell’halachà, sulla revisione della Legge del Ritorno e della definizione del Chi è ebreo. Ma quali saranno i veri rapporti di forza all’interno del nuovo governo? Da questo dipenderà la tenuta democratica del Paese, dicono gli osservatori occidentali
L’esito delle ultime elezioni israeliane, col marcato rafforzamento dei partiti della destra estrema e di quelli religiosi ultraortodossi (haredim), ha suscitato in Israele e altrove, in seno ad alcune parti delle comunità ebraiche nella diaspora, molte domande. Principalmente, in seguito all’ingresso nella Knesset del Partito dei Sionisti Religiosi (PSR), terza forza politica per numero di deputati (14 su 120), nata dall’alleanza tra tre formazioni con connotazioni razziste, omofobe, di acceso nazionalismo militante con una forte impronta religiosa. L’ingresso nella stanza dei bottoni di partiti che si fanno attivamente custodi degli interessi di quel mezzo milione di israeliani che vivono nei 140 insediamenti cisgiordani (più altri 200mila a Gerusalemme est), rischia di avere, in prospettiva, un effetto dirompente sulla società dello stato ebraico.
La verità vuole che si riconosca che nei 74 anni di vita di Israele la presenza al governo o nelle coalizioni al potere di rappresentanti di partiti religiosi è stata quasi ininterrotta. Da una parte però, si aveva a che fare con partiti ortodossi che condividevano l’ideale sionista espresso da Teodoro Herzl ma al tempo stesso volevano evitare che lo stato cadesse in eccessive forme di laicismo a spese di un’identità ebraica inseparabile da quella religiosa. Dall’altra, c’erano nella Knesset anche rappresentanti dei partiti religiosi ultraortodossi, teologicamente contrari al sionismo, che in cambio di politiche governative a tutela degli interessi particolari delle comunità di haredim erano disposti a sostenere la coalizione dominante, in ogni dato momento. Il peso numerico di questi partiti alla Knesset non era tuttavia mai stato tale da imporre ai vari governi di diverso colore le politiche da adottare su questioni centrali più “spinose” o aspramente dibattute.
Diversa però è la situazione emersa dalle ultime elezioni. Per la prima volta Israele si ritrova con un governo che, per usare la definizione dell’ex e nuovo premier Benyamin Netanyahu, “è ora di destra-destra”. Un governo in cui è il Likud a rappresentare l’ala più moderata rispetto ai partiti alleati. Questi ultimi, insieme, hanno per numero di deputati (32) la stessa forza parlamentare del Likud. È un governo perciò che, potendo contare su una solida maggioranza con un’ideologia condivisa, seppure con accenti diversi, non ha bisogno per sopravvivere di complicate alchimie politiche e nemmeno di alleanze con partiti di orientamenti politici più moderati.
Una migliore comprensione della serietà del problema riguarda l’accesso dell’estrema destra e del radicalismo religioso ebraico nel sancta sanctorum dello Stato; e deve necessariamente partire dall’approccio ideologico alle questioni centrali sull’agenda del paese.
La prima vexata quaestio investe i rapporti interni al mondo ebraico. Sulla definizione del Chi è ebreo, per esempio, non è mai stato possibile arrivare a una risposta condivisa con le correnti riformiste (Reform)e Conservative dell’ebraismo. E ciò ha un’importanza cruciale per l’applicazione della Legge del Ritorno che riconosce a ogni ebreo il diritto di stabilirsi in Israele e di prenderne subito la cittadinanza. Incoraggiati dal successo elettorale, esponenti ultraortodossi cominciano a chiedere una revisione della Legge, in modo da limitarne l’applicazione solo ai figli di genitori ebrei (perciò non a nipoti o pronipoti) e a chi si sia convertito ma solo se in conformità con i riti di una rigida ortodossia religiosa, rifiutando perciò le conversioni effettuate da rabbini riformisti, considerati esponenti di una vera e propria “eresia”. E c’è ora chi propone di adottare la definizione di “Stato ortodosso di Israele”. È il caso del rabbino Yitzhak Goldknopf, leader dell’UTJ (acronimo inglese di United Torah Judaism), che si oppone a spada tratta all’insegnamento nelle yeshivot, cui vanno sussidi statali, di materie fondamentali in qualunque sistema scolastico, come l’inglese, la matematica, la fisica. In un’intervista al Canale 12 della tv israeliana, Goldknopf ha dichiarato “di non aver mai constatato che l’insegnamento della matematica e dell’inglese abbia davvero contributo al progresso economico del Paese”. E c’è chi si fa domande sul futuro, chiedendosi per quanto tempo ancora Israele resterà la Start Up Nation.
Nuove alleanze
C’è una convergenza di intenti tra haredim e estrema destra. Ambedue mirano ad accentuare l’identità religiosa dello stato rispetto a quella chilonì israeliana. Tra due poli, laico e haredita, il fatto che molti degli elettori del Likud osservino le tradizioni ebraiche rende più facili i collegamenti tra questi e i partiti harediti. Bezalel Smotrich, che assieme a Itamar Ben Gvir guida il PSR, è stato chiaro: “Sì, a tutti noi piacerebbe avere uno Stato che si comporti in conformità con la Torà e la halacha”. (1) Ad accomunare gli ultraortodossi e i seguaci del PSR, inoltre, c’è il rifiuto assoluto di ogni aperta manifestazione di sessualità diversa da quella che si considera nella norma. Non sorprende perciò che Smotrich si definisca “orgogliosamente omofobo” o che Ben Gvir, in reazione al Gay Parade a Tel Aviv proponga una “sfilata di animali”.
Sia Smotrich che Ben Gvir sono stati per anni sotto osservazione dello Shin Bet a causa del loro estremismo. Ambedue hanno un passato di ripetuti arresti e scontri con le forze dell’ordine. Smotrich, il cui servizio militare è stato breve e chiuso dentro un ufficio, avrebbe voluto per sè il Ministero della Difesa ma andrà invece al Tesoro da cui dipendono tra l’altro gli stanziamenti per gli insediamenti. Ben Gvir, di scuola kahanista (da Meir Kahane, il leader del Kach), ha ottenuto il Ministero della sicurezza interna con poteri allargati anche sulla polizia.
RAPPORTI CON LA DIASPORA
Sin dalla sua costituzione, lo stato di Israele ha sempre attribuito enorme importanza ai rapporti con le comunità ebraiche degli Stati Uniti, dove le correnti Conservative e Reform hanno un peso dominante rispetto a quella Orthodox. Un peso dovuto soprattutto – ma non soltanto -, all’influenza che si suole attribuire alla cosiddetta lobby ebraica sulle politiche delle amministrazioni che si sono succedute alla Casa Bianca. Ora però – scrive il giornalista Anshel Pfeffer, in un commento sul quotidiano Haaretz – si avverte “una crescente tendenza a considerare la diaspora, con la sola eccezione della sua minoranza di ebrei ortodossi, come nemica dello stato ebraico”. (2) “C’è una marea in salita di odio da parte della destra religiosa israeliana – afferma ancora Pfeffer – per quella che essa considera essenzialmente una diaspora antiebraica’’, includendo in questa non solo sostenitori di organizzazioni antisioniste e ebrei riformisti americani, ma anche migranti (da Russia, Ucraina, ad esempio) che, potendo rivendicare antenati ebrei, hanno il diritto di stabilirsi in Israele grazie alla Legge del Ritorno. In questo clima, anche i primi timidi tentativi di una parte della minoranza araba israeliana (21%) di integrarsi nella vita dello stato si scontrano con posizioni di rifiuto dell’estrema destra con espressioni anche intimidatorie, come l’intento di ripristinare la pena di morte per i colpevoli di terrorismo (solo arabi o anche ebrei?) e di cacciare arabi “sleali” nei confronti dello stato. (3)
Governare con le leggi della halachà
Molti osservatori si pongono perciò una domanda: la democrazia israeliana è a rischio? La preoccupazione c’è. Prima di tutto perché la fedeltà alla concezione socialdemocratica di stampo occidentale dello stato non è necessariamente condivisa dall’estrema destra nazionalista religiosa. Anzi, influenti rabbini come Haim Drukman, ritenuto guida spirituale di Smotrich, affermano apertamente che essendo Israele uno stato ebraico è logico che debba essere governato secondo le leggi della halachà. “Non vedo dove sia il problema” afferma Drukman, assicurando che in ogni caso non si vuole interferire nella vita privata del cittadino. (4) Non ricorda tuttavia i poteri di cui gode il rabbinato in materie che investono la vita privata, come matrimoni, divorzi, sepolture, leggi culinarie.
Per la prima volta è stata creata, in seno all’ufficio del Premier, una “Direzione per l’Identità Ebraica” affidata a un altro esponente del PSR, il rabbino Avi Maoz, con poteri di indirizzare programmi di orientamento ebraico ortodosso anche per le scuole laiche statali. Il fine, da lui stesso espresso, è di evitare che “Israele diventi uno Stato come tutti gli altri”. “Il mio compito è di fare in modo che vi siano programmi di identità ebraica al posto di quelli di ‘uno stato di tutti i cittadini’. (5) È nel mirino anche il principio della separazione tra i tre fondamenti dello Stato su cui ogni democrazia si basa. Si assiste con crescente frequenza ad attacchi all’indipendenza della magistratura, con la proposta di riforme che, all’estremo limite, di fatto finirebbero col trasformare i giudici in docili strumenti del potere politico. Obiettivo primario è la Corte Suprema, accusata di un eccesso di “attivismo giudiziario” e di essersi posta al di sopra della volontà della Knesset, invalidando leggi giudicate inconciliabili con i principi enunciati nella Dichiarazione di Indipendenza. Il nuovo governo non nasconde di volere al più presto una legge che, senza nemmeno esigere una maggioranza speciale, sancisca in ogni caso la superiorità della Knesset sui verdetti della Corte. Se ciò avvenisse, diverrebbe per esempio più facile modificare in senso restrittivo la definizione di reati per i quali più volte ministri e alti funzionari dello stato sono stati processati per corruzione, interessi privati in atti pubblici e abuso della fiducia a loro concessa nell’esercizio degli incarichi.
Il futuro dei territori
La questione palestinese e del futuro dei Territori su cui Israele, dal 1967, esercita la sua autorità è un tema, come quelli appena sfiorati in questo articolo, che meriterebbe ampia e separata trattazione. Ci si limita qui a osservare che subito dopo il conflitto del 1967 la linea iniziale dei governi israeliani era stata di considerare questi territori merce da barattare in cambio di accordi di pace con gli stati arabi. Fu sfortunatamente il vertice arabo di Khartum (1967) con i suoi famosi tre no – NO ai negoziati, NO al riconoscimento di Israele e NO alla pace – a congelare la situazione. Ma nulla resta perennemente statico. Quella che era merce da baratto ha assunto, col trascorrere degli anni, un valore diverso. Le trasformazioni in seno alla società israeliana hanno portato al prepotente emergere di una destra religiosa e radicale, ispirata da rabbini animati da visioni messianiche, con largo seguito di fedeli, che attribuiscono alle bibliche terre della Giudea e Samaria, di cui vogliono l’annessione, una dimensione sacrale, quasi fossero altari sui quali tutto è lecito sacrificare. Il filosofo e scienziato ortodosso Yeshayahu Leibowitz, poco dopo il conflitto del 1967, aveva ammonito contro il rischio di “idolatria dei Territori”. Aveva pure previsto l’impatto nefasto che avrebbe avuto sulla società e sulla democrazia israeliana il contatto con una popolazione palestinese ostile, guidata da una dirigenza politica incapace dei necessari compromessi per una soluzione del conflitto e senza sincera volontà di pace. La profezia di Leibowitz sembra si stia ora progressivamente avverando, se è vero che nelle ultime elezioni il 20% dei soldati in servizio di leva ha votato PSR. Una visione messianica della biblica Eretz Israel da cui deriverebbe, come logica conseguenza, anche il rifiuto di ogni soluzione politica del conflitto israelo-palestinese che comporti una cessione di terre considerate inalienabili. Già nel 1985 il Consiglio degli Insediamenti Ebraici in Cisgiordania e Gaza aveva avvertito che un governo che dovesse aprire un negoziato sul futuro dei Territori occupati “sarebbe da noi considerato illegale e trattato esattamente come il generale De Gaulle trattò il regime di Vichy del Maresciallo Petain, traditore del popolo francese”. Da allora la situazione si è ancora più inasprita con la moltiplicazione degli insediamenti ebraici e l’aumento della popolazione dei coloni.
Una società in trasformazione
Da una società di immigrati composta da un centinaio di etnie diverse nei suoi primi anni di vita, la società ebraica israeliana è oggi formata per il 70% da giovani nativi del paese; molti di loro non hanno conosciuto realtà diverse e altre culture. Studi e ricerche (6), in anni recenti, analizzando le risposte ottenute nei sondaggi, rilevano che il 49% degli israeliani si definisce laico, il 29% Masortiim (tradizionalisti nel senso di rispetto della religione e delle sue festività), il 22% religiosi ortodossi, l’8% haredim (12% secondo altri sondaggi). (7) Le divisioni emergono chiaramente su questioni sia di identità (l’89% dei laici si dice prima israeliano e poi ebreo, vale l’opposto per i religiosi), sia in tema di rapporti tra Stato e religione. Pur dichiarandosi in maggioranza favorevoli a un sistema democratico di governo, gli israeliani restano fortemente divisi in risposta alla domanda se in caso di conflitto debbano prevalere i principi democratici su quelli religiosi o viceversa. Il contrasto è emerso di recente in tutta la sua gravità sulla questione della partecipazione di soldati di ambedue i sessi in alcune unità delle forze armate. Influenti rabbini hanno preso apertamente posizione contro la partecipazione delle donne in unità combattenti al fianco di soldati, delle ‘yeshivot hesder’ (dove il servizio militare è abbinato a quello degli studi talmudici). Un’aperta interferenza dei rabbini nella vita delle forze armate; ma anche una questione etica, quella di porre il giovane militare, formatosi nelle yeshivot, davanti a dilemmi laceranti nel caso di ordini contrari alla sua formazione religiosa. “Il sionismo socialdemocratico – afferma il sociologo Ian Lustick (8) – si trova davanti a sfide senza precedenti da parte di un’ideologia irredentista con una base escatologica, che si può caratterizzare come integralismo ebraico”. Il quadro che emerge non è perciò rassicurante agli occhi di un liberale progressista. Si è davanti a un confronto/scontro che investe l’identità e il destino attuale dello stato ebraico.
Note
[1] Israeli right-wing lawmaker wants nation to be governed by Jewish law. He acknowledges it won’t happen soon di Marcy Oster – JTA 6-8-2019)
[2] Netanayhu’s Israel is about to slam the door on the Diaspora community di Anshel Pfeffer (Haaretz, edizione inglese, 18-11-2022)
[3] Affermazioni fatte in numerose interviste sui media israeliani
[4] Articolo su The Times of Israel del 18-11-2022: Spiritual adviser to Smotrich backs theocracy: “No problem having a halachic state”.
[5] Articolo su Haaretz del 4-12-2022: By giving far right a stake in Israeli education, Netanyahu awakens a sleeping giant.
[6] Per citarne solo alcuni: Israel’s religiously divided society, Pew Research Center, 8-3-2016 – The views of Israeli voters di O. Anabi e T. Hermann, Israel Democracy Institute (IDI) 21-3-2021 – Education for democratic values and combating racism through education di M. Kremnitzer e N. Lautman, IDI, 30-6-2015
[7] Per il loro altissimo tasso di natalità gli haredim saranno un terzo della popolazione tra 40 anni, secondo proiezioni statistiche.
[8] Israel’s dangerous fundamentalists, Ian S. Lustick, Foreign Policy, n. 68, 1987.
* Giorgio Raccah, tripolino di nascita, 78 anni, corrispondente ansa da Gerusalemme (1979-2011) e in anni passati collaboratore di diverse testate prima di ritirarsi a vita privata.