Quale fu il vero ruolo della Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale? Quali le sue politiche di accoglienza così altalenanti e contraddittorie? Chi fu respinto e chi accolto? Lo narrano innumerevoli storie e resoconti, alcuni felici, altri funesti. Eccone alcuni, raccontati in occasione del Giorno della Memoria
Caro lettore, cara lettrice,
non è raro che a Gerusalemme possa capitare di trovarsi nel bel mezzo di una sarabanda di canti e danze che portano in trionfo un rotolo della Torà. Tuttavia, quello che ballando veniva sollevato in aria nelle strade intorno al Monte Herzl un pomeriggio di novembre di poche settimane fa non era un rotolo come tutti gli altri.
Era stato salvato dalla distruzione nel 1940, dal console portoghese Aristides de Sousa Mendes, insieme ai diecimila ebrei per il cui salvataggio dai nazisti Sousa Mendes sarebbe entrato nella leggenda e tra i Giusti dello Yad Vashem. A distanza di più di ottant’anni da quei fatti, oggi, a Gerusalemme, è stata inaugurata una piazza in suo nome, Kikar Sousa Mendes, e per due giorni la città ne ha onorato la memoria con il pellegrinaggio dei tantissimi famigliari e discendenti di quei diecimila ebrei che gli dovevano la vita, accorsi da ogni angolo del pianeta a Gerusalemme per l’occasione.
Quella che giunge fino a noi è la luce delle stelle morte, scriveva Andreè Schwartz Bart in uno dei più famosi incipit della letteratura della Shoah. Sousa Mendes era il console portoghese a Bordeaux, in Francia, quando le forze tedesche invasero il paese nel 1940. Sfidò il governo di Salazar e rilasciò migliaia di visti che consentirono la fuga a circa trentamila rifugiati tra cui almeno diecimila ebrei. Non a caso gli storici attribuiscono a Sousa Mendes il primato del più grande salvataggio effettuato per iniziativa di un singolo individuo durante la Shoah (Oskar Schindler ne salvò 1200).
La vicenda di Aristides de Sousa Mendes è molto conosciuta, libri e film l’hanno raccontata, ma quello che forse pochi ricordano è che terminò i suoi giorni in estrema povertà, dimenticato e bandito dal suo Paese, talmente in miseria da non possedere neppure un abito per la sepoltura. Anche i suoi 14 figli vennero colpiti dalla stessa damnatio memoriae, considerati come paria sociali dal Portogallo di Salazar e costretti a lasciare il Paese per ricostruire la propria vita altrove pur di non sentire il peso del passato. Ci sono voluti decenni perché il Portogallo ripristinasse postumo lo status diplomatico di Sousa Mendes.
Il console aveva pagato a caro prezzo il suo gesto di insubordinazione. Ma Sousa Mendes, cattolico e profondamente osservante, sapeva ciò che sarebbe successo alla folla scomposta che si accalcava ai cancelli del consolato se non avesse dato loro i visti che stavano chiedendo. La notte del 13 giugno 1940 Aristides era andato a coricarsi profondamente turbato. Tre giorni dopo annunciava che avrebbe concesso i lasciapassare a tutti coloro che lo avessero richiesto. Con i suoi figli e con l’amico rabbino Chaim Hertz Kruger, allestì una vera e propria catena di montaggio con cui fu in grado di rilasciare migliaia di visti nei giorni successivi, finché Salazar non gli ordinò di tornare a Lisbona, destituendolo dalle sue funzioni. Era l’8 luglio 1940. Sousa Mendes fu processato, espulso dal servizio estero e privato dello stipendio e della pensione, gli fu ritirata la patente e ingiunto il divieto assoluto di esercitare la professione di avvocato. Sopravvisse, lui cattolico, solo grazie alla solidarietà degli ebrei di Lisbona verso i quali sentiva una comunanza di destino, profugo e rifiutato anch’egli.
Oggi un rotolo di Torà ha ballato per lui, il suo rotolo, quello che salvò. C’è una piazza a suo nome. Quella che giunge fino a noi è la luce delle stelle morte, appunto.
Fiona Diwan