di Ilaria Myr
Con due eventi, a Milano e Roma, il CAI ha ufficializzato il percorso di presa di coscienza della propria colpevole partecipazione all’espulsione degli ebrei dalle sue sezioni, grazie anche al ritrovamento di alcuni documenti dell’epoca
«I valori fondanti del Club Alpino Italiano sono sempre stati la solidarietà e la vicinanza fra i popoli, e sono stati traditi durante le Leggi razziali. Quest’anno abbiamo voluto finalmente fare i conti con la Storia e la nostra storia». Parole di Roberto Monguzzi, presidente della sezione CAI di Milano, che il 27 gennaio scorso, in occasione del Giorno della memoria, ha tenuto un evento dedicato agli iscritti espulsi dalle Leggi razziali: furono infatti almeno 70 gli ebrei membri della sezione milanese del Club che dovettero abbandonare l’associazione dopo l’emanazione della legislazione antiebraica nel 1938, come è emerso dall’archivio ritrovato nella sede di Milano. Durante la serata, a cui hanno partecipato circa 70 persone, sono state consegnate delle tessere onorarie ai discendenti di alcuni degli epurati (uno di loro è Ugo Weiss) rintracciati dagli organizzatori. L’iniziativa del CAI Milano rientra nella più ampia presa di coscienza del CAI nazionale della propria responsabilità storica e nella volontà di fare un ‘mea culpa’ per quella tragica pagina di storia che lo vide coinvolto, espressa durante l’assemblea nazionale tenutasi a Bormio nel maggio 2022.
Un evento simile a quello milanese si è tenuto anche a Roma il 25 gennaio, da dove furono espulsi più di 200 ebrei, e non è escluso che nel futuro le altre sedi facciano lo stesso.
«La storia ci ha attraversato nel bene e nel male e ci sembrava importante e giusto tornare su una vicenda storica che ci aveva coinvolto in modo lontano dai nostri storici ideali – continua Monguzzi -. Nel 1938 con le leggi razziali il CAI ha assecondato in modo nefasto il mandato, trasmesso con una circolare riservatissima, di espellere gli ebrei a Milano e in tutte le città italiane».
All’epoca il Club era un ambiente elitario, composto da circa 30.000 soci appartenenti all’alta borghesia: vi erano professori, accademici, scienziati e alpinisti famosi. Per questo, fra gli espulsi ci sono anche nomi illustri, come lo scrittore Alberto (Pincherle) Moravia, i futuri premi Nobel Franco Modigliani (per l’economia) ed Emilio Segrè (fisica) e l’alpinista Ugo Ottolenghi di Vallepiana.
Sono anni, quelli del fascismo, in cui l’alpinismo è in grande evoluzione. «I giornali dell’epoca seguivano con interesse i successi degli alpinisti – spiega Carlo Lucioni, past president della sezione e organizzatore della serata del 27 gennaio -. Tutte le grandi vette erano state salite, e gli alpinisti erano impegnati su alcune pareti difficili. C’era quindi un interesse diffuso, che il regime ha voluto cavalcare per rafforzare la propria ideologia, che comprendeva l’idea del ‘superuomo’, teorizzata da Nietzsche e ripresa da Julius Evola, anch’egli alpinista. Il CAI poteva, insomma, nell’ottica fascista, diventare l’organizzazione in grado di condizionare la formazione dei giovani e per fare questo doveva essere controllato dal regime, che vi mise a capo un suo gerarca, diede un’organizzazione centralizzata che dipendeva da Roma – prima ogni sede era autonoma – e vi fece confluire tutte le organizzazioni di escursionismo alpinismo e di atletica (ad esempio il Guf). Venne inoltre incluso nel Coni, che era alle dipendenze dirette del governo, e gli fu dato un nome ‘italico’: Circolo Alpinistico Italiano. In questo modo, nel giro dieci anni, si passò al controllo assoluto di un organismo che da sempre era democratico e libero».
Subito dopo l’emanazione delle Leggi razziali, nel novembre del 1938, il CAI centrale ordinò a tutte le sezioni di procedere a individuare tutti i soci ufficialmente di razza non ariana e quindi razza ebraica. «Tutto ciò fu svolto con grande zelo da parte dei funzionari dell’associazione, in un’atmosfera di indifferenza, ma anche di vergogna e imbarazzo: capitò più volte, infatti, che delle cordate che facevano attività insieme dal giorno all’altro si trovassero ‘orfane’ dei loro membri ebrei».
Dopo la guerra il Cai si risollevò e tornò a essere un organismo democratico, che oggi alza il velo dell’omertà su quella pagina buia della sua storia. «Al momento abbiamo trovato le informazioni solo su Milano e Roma – spiega Fabrizio Russo, coordinatore del comitato centrale del Cai -. In tutte le altre città – alcune delle quali ebbero molte espulsioni, come Trieste e Ferrara – non si trovano i documenti, o per incuria degli archivi o perché fatti sparire per vergogna. Per questo abbiamo indetto un bando di finanziamento per fornire alle sezioni un archivista in grado di aiutarle a capire cosa hanno negli archivi».
Ammettere le responsabilità
Il Cai però non è l’unico ente ad avere voluto squarciare il velo della vergogna: in anni recenti, infatti, altre realtà hanno riconosciuto le proprie responsabilità nell’espulsione di associati ebrei. Nel 2018 il presidente della Conferenza dei rettori universitari ha fatto a Pisa un mea culpa a nome di tutti gli atenei coinvolti all’epoca. Dal 2017, poi, l’Ordine degli avvocati ha ricordato i colleghi ebrei con diverse iniziative in varie città, come Milano, Torino, Padova, Venezia e Roma. Inoltre, nel marzo dell’anno scorso, il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha approvato all’unanimità un progetto per fare luce sui colleghi giornalisti radiati all’epoca, mentre l’anno prima l’Ordine dei Medici Chirurghi e odontoiatri di Milano e l’Università Statale di Milano hanno ricordato con una targa i 153 medici ebrei espulsi nel capoluogo lombardo.
Per quanto riguarda gli architetti, c’è un progetto europeo, intitolato European remembrance, che ha l’obiettivo di informare e sensibilizzare sulle discriminazioni subite dagli architetti ebrei durante i regimi nazifascisti. In questi anni si sono tenute diverse manifestazioni e convegni su questo argomento, e il 15 marzo a Milano è stata posta una targa in memoria dell’architetto Alessandro Rimini davanti al Cinema Colosseo, uno dei tanti edifici da lui progettati nel capoluogo lombardo.
Ma perché questa presa di coscienza è emersa solo nell’ultimo decennio (e per alcuni ambiti professionali non lo è ancora)? «Mancava la sensibilità sull’impatto che le persecuzioni hanno avuto sull’intera società italiana – spiega a Bet Magazine-Mosaico Gadi Luzzatto Voghera, direttore del CDEC -. Dopo l’istituzione del Giorno della memoria, nel 2000, questa attenzione è andata lentamente crescendo, portando a un esame di coscienza gli ordini professionali e le varie associazioni che tutt’oggi mantengono l’organizzazione di allora – molti sono infatti nati durante il regime fascista -. In particolare, l’iniziativa del CAI è interessante perché mette in luce il ruolo degli ebrei nella medio-borghesia dell’epoca e il loro fortissimo rapporto con la montagna. Molti furono, infatti, gli ebrei fra i soci fondatori del Club, e molte furono le guide sulle montagne scritte da ebrei. Il fatto che oggi il CAI investa denaro per fare ricerca storica nei suoi archivi è onorevole e importante».