di Fiona Diwan
Trascritte dopo ogni Shabbat su fogli nascosti sottoterra in latte d’alluminio, escono in italiano le leggendarie derashot del Maestro chassidico Kalonymus Shapira. Parole di consolazione, conforto, coraggio in tempi disperati. Parole ebraiche di speranza da dietro le mura naziste
Ci sono uomini che testimoniano di una tale capacità di resistenza spirituale in condizioni estreme da toccare il cuore più indurito e scettico. Ci sono parole che esprimono una tale resilienza interiore da lasciare ammutoliti. Gesti e azioni eccezionali, compiuti in un contesto di degrado fisico e morale tale da farci abbassare lo sguardo. Fu il caso di Emanuel Ringelblum che nel ghetto di Varsavia riunì un gruppo che abitava tra quei vicoli e pubblicò diari, scritti e disegni nel suo archivio Oneg Shabbat a eterna memoria di come si possa combattere la barbarie con parole di bellezza e di testimonianza, fogli rinchiusi in bidoni del latte, ritrovati tra zolle e macerie di Varsavia a fine guerra. Lo stesso caso vale per l’opera di Kalonymus Shapira (1889- 1943) e per le sue straordinarie derashot pronunciate e trascritte settimana dopo settimana, dopo ogni Shabbat, nel ghetto di Varsavia, dal 1940 al 1942, fogli nascosti sottoterra in latte d’alluminio e ritrovati nel dopoguerra da un operaio polacco, un’opera oggi tradotta anche in italiano: è il prezioso volume dei Nuovi responsa di Torà dagli anni dell’ira, di Kalonymus Shapira (Giuntina, pp. 357, 20,00 euro, traduzione e note di Luigi Cattani), gli scritti di un grande maestro chassidico, discendente di una illustre dinastia rabbinica, le parole di un educatore che seppe infondere conforto, consolazione e coraggio in tutti coloro che venivano a cercarlo e che mai accettò la resa al dolore e alla disperazione, malgrado la deportazione della figlia avvenuta all’inizio della guerra e la morte del figlio e della nuora sotto i bombardamenti nazisti del 1939.
Come spiega nella pregevole introduzione la studiosa Daniela Leoni, “Shapira, pur non nominando mai il nazismo e Hitler, mostra di comprendere come quello che sta accadendo non è paragonabile a nessun altro evento della storia ebraica”. Pertanto, il volume racconta “il percorso spirituale compiuto da Shapira all’interno del tema della sofferenza e del dolore a partire dalla situazione concreta da lui stesso vissuta in quegli anni, in strettissima connessione con l’intera comunità ebraica di Varsavia”. Di fronte alla possibilità di scappare in Russia, Shapira oppose un rifiuto categorico, mai avrebbe abbandonato i suoi chassidim e tutti gli ebrei del ghetto. La sua casa e il suo bet-hamidrash saranno un rifugio per tutti, un tetto protettivo e gioioso, malgrado angherie e fame, sotto cui rifocillare corpo e anima.
Shapira è un Rebbe, è un maestro chassidico, la sua prospettiva è mistica, escatologica, l’impronta speculativa è qabbalistica, la parola è sempre salvifica, capace di trasformare il disordine in ordine, di trarci dal caos e dalle tenebre ed essere veicolo di speranza: perché le lettere ebraiche pronunciate dall’uomo evocano la potenza creatrice del divino. Per Shapira, tutto si muove in un universo di fede e di devequt, di ricerca di comunione con la maestà dei cieli e con il Dio infinito che lì risiede, nella convinzione che ci sia un legame diretto tra l’azione dell’uomo e l’azione di Dio, “perché quando vi è un’azione in basso essa suscita un’azione in alto”, e – come diceva il Baal Shem Tov – l’Altissimo si comporta nei riguardi dell’uomo come un’ombra: qualsiasi cosa fa l’uomo, lo stesso fa la sua ombra.
Shapira era consapevole di dover interpretare il dolore e le angustie vissute dagli ebrei in quel momento secondo canoni differenti, con un linguaggio interpretativo capace di superare la visione tradizionale del rapporto tra sofferenza e punizione divina per il peccato. Si pone domande che anticipano tutto il pensiero ebraico post-Olocausto: il patto di alleanza tra Dio e il suo popolo è ancora valido? Cosa può rispondere la fede ebraica, la pratica delle mitzvot e la devequt, davanti all’abominio nazista, davanti a quella che Eliezer Berkovitz definirà “la religione della brutalità, la barbarie metafisica del nazismo”? Ciononostante, l’impegno di sostenere la fede e la speranza in un periodo così buio non fletterà mai, portando Shapira a rinsaldare la convinzione che è proprio nel Nascondimento del proprio Volto, nel suo ritrarsi per fare spazio alla sua creatura, che si manifesta la massima onnipotenza del Creatore. Lo tzaddik, mediatore tra mondo celeste e mondo dell’azione, si pone come un canale di grazia tra sé e i discepoli che si affidano a lui, in modo da dispensare fiducia e benedizione divina anche nei momenti più tragici.
Amalek, Lech lechà, Pesach, Purim, Tish’a beAv… tutto verrà letto e interpretato senza mai pronunciare la parola nazismo o Hitler, ma con ogni espressione che vibra e risuona di consapevole drammaticità.
Non a caso, nelle derashot all’inizio del 1940, Shapira inizia a parlare di Hester panim, appunto del concetto del “Nascondimento del volto di Dio” come percezione di un abbandono della presenza divina nel mondo: una percezione sbagliata, spiega Shapira ai suoi ascoltatori, poiché chi avverte Dio lontano e assente è perché è egli stesso che si allontana da Lui, è l’uomo che non accettando la sofferenza diviene lui stesso causa della rottura della sua intimità col divino. Voce dell’anima ebraica oppressa, quella di Shapira non teme di evocare “il pianto di Dio dalle sue segrete stanze”, perché anche il Padreterno piange insieme alle sue creature quando esse levano il loro grido.
L’introduzione di Daniela Leoni e le fondamentali note di Luigi Cattani, ci conducono per mano alla scoperta di un testo che è un universo di significato e uno squarcio unico sulla spiritualità chassidica vissuta in quegli anni. Dopo la liquidazione del ghetto di Varsavia, Kalonymus Shapira morirà fucilato insieme a un nutrito gruppo di rabbini nel novembre del 1943 nel campo di Trawniki vicino a Lublino, nel corso dell’operazione Erntefest, “festa del raccolto”, ordinata da Himmler.