Yom haShoah: 600 persone all’Orfeo per la proiezione del film su Shlomo Venezia

Feste/Eventi

di Giovanni Panzeri
“A un certo punto, mentre lavoravamo, abbiamo sentito il gemito di un bambino. Un mio compagno è entrato nella camera a gas, passando sopra ai cadaveri, e ha trovato un bambino di pochi mesi, ancora attaccato al seno della madre. Siamo stati costretti a darlo alla guardia tedesca, eravamo sorvegliati giorno e notte, e lui l’ha ammazzato con un colpo alla nuca” queste parole emergono come un pugno nello stomaco dalla testimonianza di Shlomo Venezia, internato ad Auschwitz e costretto a lavorare con altri deportati nel Sonderkommando, un gruppo di deportati deputati alla rimozione e cremazione dei cadaveri nelle camere a gas. La sua testimonianza è raccolta ne “Il Respiro di Shlomo”, un docu-film di Ruggero Gabbai proiettato nella serata di lunedì 17 Aprile al cinema Orfeo di Milano dall’Associazione Figli della Shoah e dalla Fondazione Museo della Shoah in occasione di Yom Hashoah e per celebrare l’80esimo anniversario della rivolta del ghetto di Varsavia, davanti a 600 persone. L’evento si è aperto con l’accensione simbolica di 6 candele, in ricordo dei sei milioni di ebrei vittime della Shoah, ed è proseguita con l’invito alla riflessione e al ricordo da parte di Rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano, e con i saluti istituzionali di Daniela Dana Tedeschi, presidente dell’Associazione Figli della Shoah, e di Gadi Luzzatto Voghera, in rappresentanza del CDEC.

Rav Alfonso Arbib in particolare ha ricordato la differenza di Yom Hashoah rispetto al Giorno della Memoria: “Il Giorno della Memoria è istituito a livello nazionale, Yom Hashoah è invece per noi qualcosa di più intimo, più particolarmente ebraico. È una giornata in cui ricordiamo i nomi delle persone scomparse nella Shoah, in cui è importante non soltanto aver memoria di un terribile evento storico, ma soprattutto delle persone e della loro sofferenza. Noi ricordiamo la sofferenza”.

“Davanti alla sofferenza, in particolare quella dei giusti e degli innocenti ci chiediamo perché” continua Rav Arbib “ ma questa domanda, pur giusta, non avrà mai una risposta. Però ognuno di noi può recepire il messaggio che questa sofferenza trasmette al singolo, e se dalla sofferenza può imparare qualcosa, nel bene o nel male. Per questo Yom Hashoah è un giorno di riflessione.”

Daniela Dana Tedeschi si è invece soffermata sul cambiamento nella modalità di celebrazione di Yom Hashoah: quest’anno, infatti, la commemorazione  di Yom haShoah ha avuto un taglio differente rispetto al passato. Anziché l’evento nella sinagoga di via Guastalla, si sono tenuti due eventi: quello del 17 aprile al cinema Orfeo e uno mercoledì 18 alla Scuola Ebraica. “Non è stato facile passare da una celebrazione in Sinagoga a un Cinema – ha affermato – .Molti non saranno contenti, ma abbiamo cercato di trovare una soluzione a un Tempio che di anno in anno, ad ogni celebrazione di Yom Hashoah, si fa sempre più vuoto. Oggi vedo che siamo tanti. Dobbiamo però porci una domanda: come trasmetteremo la memoria alle prossime generazioni? È un problema che riguarda ognuno di noi, non è la comunità che lo decide. Sono i singoli membri”.

Il film e il dibattito: l’importanza della testimonianza

Il documentario affianca alla testimonianza di Shlomo, raccolta negli anni 90 dallo storico Marcello Pezzetti, anche il racconto personale di famigliari e conoscenti.

Testimonia l’inferno interiore di un gruppo di deportarti costretti a mettere da parte la propria coscienza per poter sopravvivere, assistendo in modo diretto e impotente allo sterminio giornaliero di milioni di esseri umani, soprattutto donne, vecchi e bambini. “Un nostro compagno un giorno si fermò mentre trascinava per mano un cadavere, rimase immobile.” ricorda Shlomo. “ Una guardia gli si avvicinò gridando, ma lui era annullato (…) ho visto che tirava fuori la pistola e gli sparava. Lui è stato il più fortunato di tutti noi, compresi i sopravvissuti”. “Qui” continua “ chi si rifiutava di lavorare veniva ammazzato, o con le botte o con la fucilazione”.

Dalla storia di Shlomo emergono tuttavia due altri temi: la necessità di trasmettere la propria testimonianza e le grandi difficoltà incontrate nel farlo, sia per quanto riguarda la società, che per decenni ha scelto di ignorare i racconti dei sopravvissuti, che nei confronti della propria famiglia, per cercare di proteggere i propri cari dal dolore.

Questi i temi al centro del dibattito che ha seguito la proiezione, tra Mario Venezia, figlio di Shlomo e presidente della Fondazione Museo Della Shoah, e il regista Ruggero Gabbai, dopo un breve video-messaggio di saluti dell’ex sindaco di Roma Walter Veltroni (previsto all’evento ma impossibilitato a venire).

Da sinistra Gadi Luzzatto Voghera, Mario Venezia e Ruggero Gabbai

 

Mario Venezia ha raccontato di come il padre non sia mai riuscito a parlare direttamente con lui della sua esperienza e di come è arrivato a comprendere appieno la sua storia solo dopo molti anni, attraverso i viaggi della Memoria ad Auschwitz e i racconti di suo padre ai ragazzi delle scuole.

“Noi (figli) da bambini, per molto tempo, non ci siamo resi conto del significato del tatuaggio che mio padre portava sul braccio. Facevamo domande, ma le risposte non arrivavano. Io l’ho compreso quando andavo in seconda media, una professoressa ci fece leggere dei libri su Primo Levi, e un mio compagno saltò su chiedendo ‘perché Mario Venezia non ha la stella gialla?’. Gli sono saltato addosso. Ma la vera complessità del tema l’ho compresa solo quando l’ho accompagnato nel viaggio della Memoria”.

Gabbai invece si è soffermato sulla necessità di continuare a utilizzare i racconti dei testimoni, cercando in particolare di trasmetterli alle nuove generazioni, cosa che, afferma “non è sempre facile. Bisogna cercare di comunicare con loro, entrare nel loro mondo. Dal punto di vista mediatico e digitale sono molto più avanti di noi, dobbiamo adeguarci ai loro linguaggi e forse avere un po’ più di umiltà. Dobbiamo metterci al loro livello per cercare di avere un’interazione vera, molti sono disposti ad ascoltarci”.

Il documentario è disponibile sulla piattaforma streaming della Rai.