«E allora le foibe?» I falsi piani della memoria e il tentativo di strumentalizzare la storia e le tragedie umane

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] «E le foibe?». Già, le foibe. La domanda stava lì, formulata in mente altrui ben prima che si avviasse il dibattito e fosse lanciata, con tratto polemico e piglio iconoclastico, contro i relatori. Attendeva infatti solo il momento opportuno per essere espressa con un calcolato grado di teatralità. Quasi a volere dire: sì, certo, tu stai ad argomentare e a ragionare ma io adesso, con un colpo mancino, ti spiazzo. Tante parole, arzigogolate, ma poi a vincere, strappando l’applauso, è un rimando solo, quello ad una tragedia che si finge sia stata obnubilata, dimenticata, rimossa, censurata. Peraltro, un tale stato di cose non è, in sé, una novità. Capita spesso. Si va a parlare, con qualcuno, a volte con molti, di fatti (e misfatti) della storia recente, si spiega – spesso sgolandosi – la differenza tra comprensione e giustificazione, si cerca di tenere insieme una pluralità di fattori (non le “ragioni” e neanche la “buona fede”, di cui sono invece lastricate le strade dell’inferno ma, piuttosto, il merito storico) e poi, come l’asso che viene calato improvvisamente da un mazzo di carte (o dal polsino del baro), facendo piazza pulita delle disposizioni di gioco, ecco che la carta viene implacabilmente gettata sul tavolo.

Shoah, nazismo, fascismo, ebrei e molto altro ma, soprattutto, le “foibe”. Il fatto che i relatori, proprio su di esse e, ancora di più, sull’esodo forzato degli italiani dai territori giuliano-dalmati, come dalla penisola istriana, tra il 1943 e il 1953, abbiano lavorato ripetutamente, poco o nulla importa a coloro che non intendono intavolare nessuna discussione ma solo affermare un precetto che sta in cuore loro da sempre: se si parla di fascismo, e di occupazione tedesca in Italia, ciò che si dice è quasi sempre la “versione ufficiale”, quella di comodo, ammannita da settant’anni di “regime pseudo-democratico”.

A ben vedere, si tratta quasi di una sorta di mimetismo sentimentale ed affettivo con il fascismo che fu. In questo percorso, il concreto rimando alle foibe, e all’esodo degli italiani, conta solo nella misura in cui viene usato da gratuito contraltare, ovvero come una sorta di contrappeso da mettere sul piatto della bilancia nel nome di una “verità storica” che è la brutta copia della par condicio, politica e informativa, per la quale tutto si equivale.

Proprio perché alla vicenda degli italiani d’Istria e Dalmazia va riconosciuta la dovuta rilevanza – tuttavia contestualizzando quanto avvenne al confine orientale, e nelle terre ad esso prospicienti, in terribili anni di guerra – nulla delle loro tragedie può essere brandito come una specie di compensazione, se non di parificazione, rispetto alle responsabilità trascorse del nazifascismo.

Non si tratta di una questione storiografica e neanche di un deficit di cognizione storica. Quello che si deve sapere è infatti abbondantemente conosciuto. Basta avere la volontà (nonché la buona fede) per informarsi. Altro ordine di discorso, invece, è il brandire un pezzo di storia come se fosse un’ascia di guerra. Nonché di rivalsa.

Si è in presenza, in quest’ultimo caso, di un atto politico, poco o nulla rispettoso delle tragedie trascorse, e ancora meno di quanti ne pagarono, del tutto incolpevoli, il conto. Quindi, semmai proteso a delegittimare qualcuno o qualcosa, falsando il significato degli eventi trascorsi, piuttosto che a riconoscerne la loro complessità. In un’ossessionante riduzione della memoria in una specie di mitografia, destinata ad offendere, per prime, le stesse vittime di quella tragedia. Se il Giorno della Memoria e il Giorno del Ricordo vengono intesi come terreno di parificazione (della serie: “tutti vittime, tutti uguali”) allora del lascito del passato rischia di rimanere poco o nulla.

Non esiste una gerarchia del dolore così come non esistono vittime più importanti di altre. Sussistono invece i fatti storici, i numeri, i percorsi criminali, le responsabilità e le colpe, le dinamiche e il loro tradursi in atti. Così come le dimensioni di grandezza. Non ci stancheremo mai di ricordarlo. Non certo perché si ritenga, per parte nostra, di mantenere il poco invidiabile primato della sofferenza. Semmai perché vorremo evitare che il racconto delle tragedie collettive si trasformi, nell’età della non-distinzione, dell’uno vale uno, del populismo politico e storico, della totale intercambiabilità di fatti, persone, gesti e idee, in una sorta di melassa dove tutto precipita in un vuoto cosmico.

Si tratterebbe, nel qual caso, di quel buco nero della memoria che, per fingere di comprendere ogni dolore, in realtà – invece – ne cancella ogni specificità.
Se non può esistere una concorrenza tra le vittime delle grandi vicende storiche, non può nemmeno darsi una rancida marmellata dove le responsabilità, individuali e collettive, si perdono completamente dinanzi alla sofferenza degli incolpevoli. Chi cerca compensazioni, rivalse e parificazioni, in realtà si sta adoperando per livellare la storia. La quale è sempre un falsopiano, che appare allo sguardo disattento come una distesa di terreno apparentemente pianeggiante, quando invece è caratterizzata da dislivelli frequenti. Quelli che derivano dal senso di responsabilità, altrimenti troppo spesso omesso.