di Ilaria Myr
Definire cosa sia l’ebraismo è, come si sa, un’impresa estremamente ardua, su cui si cimentano da sempre studiosi di diverse provenienze e discipline. Cultura, religione e identità sono infatti elementi che nell’ebraismo si intrecciano e si fondono fra loro in un modo unico, difficilmente ravvisabile altrove. Di questo si è discusso anche oggi, 1 ottobre, nell’ambito del Festival Jewish and the City, durante l’incontro “Chiavi per l’ebraismo” all’Università Statale di Milano. A confrontarsi su questi importanti temi Alessandro Guetta, professore di letteratura ebraica presso Inalco (Paris), e Giovanni Filoramo, professore di storia del cristianesimo presso l’Università degli Studi di Torino. Moderatore Guido Vitale, direttore di Pagine Ebraiche.
Cos’è l’ebraismo
«L’ebraismo è anche una religione – ha dichiarato fermamente Filoramo -. O meglio: lo è diventata nell’800 con il processo di emancipazione e la privatizzazione della dimensione religiosa. L’ebraismo diventa così una religione nel senso moderno del termine, concepita a partire dalla religione dominante, quella cristiana».
La prima conseguenza di questo fenomeno è lo sviluppo delle grandi correnti del giudaismo di fine ‘800. Ma soprattutto l’affermazione della volontà, in seno all’ebraismo, di differenziarsi dalla visione cristiano-centrica della religione.
Una questione centrale quando si parla di storia dell’ebraismo riguarda il suo inizio: da Abramo o da Mosè? «Difficile, arduo, dirlo, e non ci proveremo – continua Filoramo -. Certo è che l’ebraismo è per gli ebrei una totalità in cui la fase biblica ha un ruolo di primo piano. Basti pensare a quanti studiosi ebrei anche laici – uno su tutti Freud – si siano confrontati ampiamente con la figura di Mosè. Tutto ciò fa sì che l’ebraismo sia un mondo in cui il dato etnico – il popolo ebraico – e quello religioso si intrecciano continuamente, senza essere separabili».
Il ruolo della lingua
Uno degli elementi che devono essere considerati quando si cerca di circoscrivere l’ambito dell’ebraismo è la lingua di espressione delle popolazioni ebraiche. In un’attenta analisi di ciò che avveniva agli ebrei in Italia nel periodo fra la seconda metà del ‘500 e la prima del ‘600, Alessandro Guetta ha messo in luce l’importanza e la diffusione fra gli ebrei della lingua ebraica. «Il mondo intellettuale degli ebrei italiani si esprimeva in quell’epoca in ebraico, e sono molti i testi che lo documentano – ha spiegato -. Ma ci sono anche molte traduzioni dall’ebraico all’italiano operate da studiosi ebrei: si tratta per lo più di testi a valenza universale, accettabili anche da un pubblico non ebraico, e realizzati per la pura volontà di trasformare un discorso da una lingua famigliare – l’ebraico, all’epoca conosciuto molto bene dagli adulti ebrei – a un’altra ugualmente famigliare – l’italiano».
Per concludere, un’ultima “chicca” degna di nota: fino al 1600 esisteva l’usanza di scrivere testi in italiano, ma con caratteri ebraici, proprio come succedeva, in Europa centrale e orientale, con l’yiddish.