di Ilaria Myr e Roberto Zadik
Una maratona di interventi di altissimo livello ha catalizzato domenica sera l’attenzione di una sala piena a scoppiare al Teatro Franco Parenti. Oggetto dell’incontro il tema “Da quale schiavitù dobbiamo liberarci?”, che ha visto alternarsi sul palco personalità di diversi ambiti – psicoanalisti, rabbini, registi, studiosi – che hanno dato il proprio contributo sul tema, affrontandolo da un particolare punto di vista. Il tutto all’interno di una formula molto originale (e assolutamente coerente con l’argomento del festival): non più di 18 minuti a testa, il tempo cioè in cui il pane ancora non sta per lievitare ed è dunque ancora allo stato di azzimo.
Vediamo dunque quali sono i diversi tipi di schiavitù da cui liberarsi.
Liberarsi dalla censura
La prima forma di liberazione è affidata alla pianista ucraina Nathalia Romanenko, fondatrice dell’associazione Extraordinaria Classica che promuove compositori sconosciuti o dimenticati dal pubblico, spesso proprio perché censurati per ragioni politiche o discriminazione. «Sono cresciuta nell’Urss, dove esisteva un’unica regola: essere come gli altri – ha spiegato -. Ma più mi dicevano come dovevo essere, più volevo essere diversa: volevo suonare all’esterno, ribellarmi ai gulag musicali. E volevo che fosse una musica fatta di colori». E’ da questa curiosità e passione che nasce l’interesse per scoprire i compositori sconosciuti, di cui ha dato durante la maratona qualche assaggio – fra cui anche Alberto Hemsi, ebreo nato da genitori italiani in Siria che studiò a Milano -, commentando: «probabilmente sarà la prima e l’ultima volta che le ascolterete».
A lei anche il compito di chiudere la serata, con un effetto a ‘sorpresa’: invitando le persone a pensare ‘put of the box’ (fuori dagli schemi), ha eseguito un brano di Sostakovic con una scatola rossa (box) in testa.
Liberarsi dal tempo
Un tema di grande interesse è quello affrontato da Rav Benedetto Carucci Viterbi. «La liberazione dal tempo è una riflessione che viene spontanea se si pensa alla mazzà: un pane senza tempo, che gli ebrei non riescono a fare lievitare per la fretta di dovere uscire. Ma D-o aveva già annunciato loro che sarebbero usciti dall’Egitto. Ciò fa capire quanto anche il prevedibile possa essere prevedibile. La festa di Pesach, simboleggiata dal pane azzimo, è dunque un invito a liberarsi dal tempo».
Ma verso dove tendere? Una lettura possibile secondo Rav Carucci è quella secondo cui si deve uscire dal tempo lineare, dalla “gabbia” in cui c’è un prima e un dopo, che fa sì che oggi siamo così perché ieri eravamo così. «Questa logica, in cui il tempo è causale, porta a un’assenza totale di libertà – continua il Rav Carucci – . Non è un caso che nella tradizione ebraica lo schiavo fosse colui a cui era negato del tempo per sé. Liberarsi da questa visione del tempo è dunque il tentativo che dovremmo operare».
Un modo per arrivare alla sottrazione del tempo è l’immediatezza, il non ragionare più secondo un prima e un dopo, ma vivere senza riferimenti cronologici: un’altra dimensione temporale, per immaginare come nel mondo futuro della verità il tempo sarà vissuti in maniera diversa.
Tutto ciò è già messo in pratica nella tradizione ebraica durante lo Shabbat. «Un 60° di eternità, in cui si vive un tempo puramente presente, durante il quale è vietato programmare alcunchè – spiega Rav Carucci -. Settimanalmente, quindi, l’ebreo cerca di vivere questo assaggio di eternità. Perché 18 – come i 18 minuti – significano Chai, vita, a significare che il senso reale della vita non è nella successione temporale, ma nel suo superamento».
Liberarsi dalla prigione
Una profonda riflessione sul tema della liberazione del carcere è quella di Lucia Castellano, già direttore del carcere di Bollate, considerato un modello per la propria politica di coinvolgimento dei detenuti. «Il carcere è un’estraniazione dalle sicurezze, in cui si perdono i propri spazi e i propri affetti, e in cui si perde soprattutto la propria identità per assumere quella di colpevole di fronte al mondo – ha spiegato -. Ma è in carcere che dovrebbe cominciare il percorso di rieducazione per cui dovremmo restituire corpi e anime diversi da quando sono entrati. Esso dovrebbe essere il luogo dell’accoglienza e del rispetto, non di spogliazione dell’identità, non un deserto dove si muore di fame e sete, ma un deserto pieno di senso».
La sfida è dunque quella di rendere innanzitutto il luogo visivamente accogliente e piacevole, e dare qualità al tempo delle persone che vi vivono, con attività, ad esempio, come l’orto e le serre (quelle del carcere di Bollate sono ormai note a tutti). «Ma soprattutto considerare il detenuto come una persona, e non invece un reato che cammina. Si deve quindi provare a sostituire il concetto di colpa con quello di responsabilità individuale e collettiva, dando, ad esempio, la possibilità di svolgere all’interno del carcere la responsabilità di essere genitori, in luoghi curati e pensati per questo.
La difficoltà però sta nel fatto che il carcere deve rivoluzionare se stesso, diventare luogo di giustizia e non di potere assoluto». Lavorare dunque sui luoghi, ma anche sul personale che lavora nel carcere è prioritario per raggiungere questo obiettivo, portandoli a diventare delle vere e proprie guide per i detenuti. «Fare tutto ciò non costa di più e abbassa la recidiva del 19% (come avviene a Bollate, ndr) – continua Castellano –. Possiamo farcela, per quei 55.000 detenuti che stanno nelle nostre carceri».
Liberarsi dalle piramidi
Nel suo intervento Ruggero Gabbai ha presentato i suoi due nuovi lavori, accompagnati dai relativi trailer: “42 suitcases”, che racconta della cacciata degli ebrei dall’Egitto da quando nel 1948 venne fondato lo Stato d’Israele, e “CityZen” sulla tormentata quotidianità del quartiere periferico dello Zen a Palermo, di prossima uscita. Il regista e fotografo ha sottolineato l’importanza della libertà citando il grande Giorgio Gaber “essa non è solo partecipazione ma anche lotta per conquistare questo diritto”. A questo proposito, ha continuato, “mi vengono in mente le tante persone che ancora oggi in vari punti del mondo combattono per la libertà: da Israele all’Iraq all’Italia, e non possiamo sentirci liberi sapendo che i nostri vicini non lo sono”. In tema di libertà, Gabbai ha citato anche il discorso del Rabbino Capo, Rav Alfonso Arbib che domenica mattina alla sinagoga di via Guastalla si è soffermato sull’importanza della responsabilità e delle azioni di ognuno di noi per definire la libertà individuale.
La sua nuova produzione sugli ebrei d’Egitto, “42 valigie”, racconta una pagina inedita e importante come la presenza ebraica in Egitto prima della cacciata degli ebrei dal Paese. Nel filmato si vedono una serie di paesaggi e immagini suggestive e numerose interviste ai sopravvissuti che dalla loro terra hanno dovuto emigrare forzatamente in varie parti del mondo. Uno di loro ha detto “abbiamo lasciato tutto e siamo scappati a bordo di una nave e con le nostre valigie. E’ stato tremendo”. Un altro degli intervistati ha aggiunto “noi amavamo l’Egitto e fino al 1948 non c’erano mai stati problemi e ebrei, cristiani e musulmani convivevano pacificamente studiando a scuola assieme ma poi tutto è cambiato e la situazione è rapidamente precipitata”.
Liberarsi dall’odio
Salutata da un applauso caloroso del pubblico, la cantante 45enne insieme al musicista palestinese Nabeel Ashkar, creatore del progetto Polyphony, ha approfondito l’argomento “Liberarsi dall’odio”.
“Ho incontrato Nabeel attraverso il mio amico e collega israeliano David Broza che ha suonato tanto con musicisti arabi nella sua carriera. Ci siamo conosciuti a casa sua assieme a sua moglie e alla sua famiglia, a cena Nazareth ed è stato straordinario”. Nabeel ha poi parlato del conservatorio da lui creato a Nazareth nel 2005, in cui ha coinvolto docenti israeliani per l’insegnamento ai ragazzi arabi. Da qui è nato, grazie anche alla collaborazione di Noa, il progetto “Polyphony”, che vede collaborare musicisti arabi e israeliani in tutto il territorio israeliano e coinvolgendo oltre 8mila studenti.
Per concludere, Noa ha improvvisato una suggestiva reinterpretazione vocale e senza nessuno strumento ad accompagnarla, della sua canzone più famosa, “Beautiful that way” brano al centro della colonna sonora del film “La vita è bella” di Roberto Beningni. Fra battute, “Per ben due volte due studenti di 16 anni hanno vinto una importante competizione musicale israeliana – ha dichiarato con soddisfazione Nabeel -, dandoci una speranza riguardo al futuro”.
Liberarsi dagli anni che passano
Molto interessante anche l’intervento di Luigi Zoja, psicoanalista e autore di numerosi testi, che ha sottolineato il ruolo di primo piano della cultura ebraica mitteleuropea nello sviluppo delle scienze psicoanalitiche. «La cultura ebraica mitteleuropea è l’aiuola in cui la psicoanalisi affonda le sue radici e permette all’Europa di approdare al nostro secolo. Non a caso il ‘900 è chiamato “secolo ebraico”». Distinguendo la libertà esterna da una interna, Zoja insiste su come molti sono i pensatori ebrei che si concentrano più sulla liberazione interiore che su quella esterna (Kafka, Canetti, Svevo). «Evocando la libertà, si tende a pensare alla libertà esterna. Questo era abbastanza scontato in un’epoca pre-psicologica. Ma da quando esiste la psicoanalisi dovremmo riformulare l’etica tenendo conto anche della dimensione interiore, del cosiddetto inconscio. Per questo dobbiamo parlare di libertà esterne ma anche, immediatamente, di libertà interiore. Come dice Brodskij: “Noi siamo involontarie personificazioni dell’idea sconsolante che ogni uomo liberato non è un uomo libero, che la liberazione è soltanto il mezzo per arrivare alla libertà e non ne è sinonimo”. Insomma, la liberazione (politica, economica) è una fondamentale premessa, ma è ben lontana dall’esser sufficiente per proclamarci liberi: lungi dal toglierci una responsabilità, ce la consegna».
Liberarsi dal pregiudizio
Infine, una riflessione sul pregiudizio di Betti Guetta, responsabile dell’Osservatorio Antisemitismo del Cdec. « Avere pregiudizi significa non solo non essere liberi noi, ma soprattutto limitare la libertà degli altri, chiuderli in una definizione – ha spiegato -. Il meccanismo del pregiudizio si basa infatti sulla necessità di semplificare la lettura della realtà, dal momento che così facendo si cancellano le complessità per ridurre la realtà a pochi dati standardizzati».
La sfida è dunque quella di disaggregare questo processo, che è fortemente connesso con un certo clima culturale, sociale, politico ed economico: soprattutto in momenti di crisi, infatti, lo straniero può diventare un capro espiatorio a cui si possono imputare i mali sociali. «Tutto ciò è ben evidente nel linguaggio, le cui sfumature sono molto importanti. Utilizzare il termine “marocchino” oppure “clandestino” con connotazione negativa semplifica e banalizza enormemente la realtà, andando a nascondere situazioni individuali spesso tragiche e complesse».
Un altro aspetto molto importante è quello dell’ignoranza e del suo legame con la classe sociale. «Un mito da sfatare è che ha pregiudizi solo chi viene da classi più svantaggiate – continua Guetta -, ma riguardano in modo uguale vari strati della popolazione».
Ma quali sono dunque i metodi per contrastare i pregiudizi? «Non possiamo liberarci dal pregiudizio, ma dobbiamo controllarlo. Più di libertà, che è un risultato, parlerei di liberazione, un percorso, restando sempre consapevoli del rischio implicito dei meccanismi mentali».