di Stefania Ilaria Milani
Il ragazzo non ha bisogno di presentazioni: la musica è l’unico biglietto da visita che gli serve. Tutti, infatti, sanno che la bacchetta d’orchestra più talentuosa dell’ultima decade, meglio celebrata con il nome di Omer Meir Wellber, è israeliana, ha 33 anni ma cominciò a soli 5 con la fisarmonica e col piano. Tutti sanno che fu braccio destro di Asher Fisch oltre che assistente di Barenboim, che nel 2011 ha debuttato alla Scala, che continua senza sosta a essere assiduo frequentatore dei prestigiosissimi teatri europei e internazionali. Che Aida, la sua all’Arena di Verona! Che Carmen, quella alla Staatsoper Berlin! Di lui si conosce l’impegno all’Israeli Opera, a La Fenice di Venezia, al Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia. Si sa che dal 2009 è direttore stabile della Raanana Symphoniette Orchestra, fondata nel ‘91 al fine di favorire l’inserimento degli ebrei immigrati in Israele. È anche noto per il suo rigore, la memoria fuori dall’ordinario, la sua spiritualità, perché è uomo di cultura e di mondo, perché ama l’Italia, in particolar modo i nostri bei Navigli. Insomma, si sa proprio tutto a proposito di Wellber, direttore d’orchestra.
Durante le tre ore trascorse in sua compagnia ho capito che non si può intervistare Omer Meir Wellber. Si discute con Omer Meir Wellber. E così, alla pari tra un canto amebeo e un altro, sono state tre ore di assoluta bellezza. Standing ovation, Maestro.
Quest’anno il tema del Festival Jewish and the City è stato Pesach. Quale, secondo Lei, è il musicista che meglio incarna un percorso di libertà, sia in ambito musicale che personale? Esiste un personaggio simbolo che ritiene di poter nominare paradigma di un’uscita dalla schiavitù, sia essa dai canoni musicali oppure da una prigione biografica?
Esistono parecchi musicisti o personaggi della lirica che possono rappresentare al meglio i diversi aspetti del concetto di Pesach. Forse il primo che può venire alla mente, sia come compositore che come uomo, è lo stesso Beethoven perché è riuscito a trasportare la musica ottocentesca da un vecchio mondo, schiavo della forma sonata, a un nuovo mondo. E, d’altronde, è come se la sua condizione di sordità lo avesse costretto a creare in una sorta di deserto del Sinai dei suoi tempi, con quel senso di essere nel nulla eppure con la possibilità, paradossalmente, di fare ogni cosa. La musica del silenzio.
Nella vita di un giovane Direttore d’Orchestra, una vita nomade, cosa la fa sentire libero? Il suo lavoro?
Ma, noi uomini e donne del 2014, cerchiamo davvero la libertà? Ce n’è ancora bisogno? Da un punto di vista filosofico, le nostre esistenze si sviluppano attraverso così tanti paletti, spesso inconsapevoli o autoimposti, che è proprio questa non-libertà a rappresentare la nostra cinta di indipendenza. Di sicuro credo non sia più necessario ricorrere a categorie datate 400 a.C. Mentre, da un punto di vista pratico, ognuno di noi tenta di trovare una zona franca nella propria quotidianità. Il nostro piccolo universo musicale è ricolmo di libertà, sia per quanto concerne il modo in cui esercitare la professione, sia il rapporto con le opere, che la relazione coi colleghi.
Rispetto al testo ha un atteggiamento più autonomo o più filologico?
La libertà non esclude il rispetto. Anzi, il contrario! Se si ha la possibilità di toccare con mano e strumenti opere prestigiose, queste dovrebbero trasmetterci l’entusiasmo di affrontarle spogli di catene storico-accademiche, di cercare una nostra libertà. In linea generale, comunque, ritengo sia un errore prendere alla lettera il testo, perché nel momento in cui ci lavori diverrà sempre, inevitabilmente, una tua personalissima interpretazione dell’originale. La musica, purtroppo o per fortuna, esiste solo nelle interpretazioni e senza quelle svanisce.
Dal momento che ha vissuto e lavorato a lungo in questa terra, si può dire che Lei abbia scelto di essere almeno un po’ italiano. Trova che ci sia un modo di dirigere e far musica all’italiana? Ne è stato influenzato?
Parlare bene l’italiano, comprendere le sfumature della lingua e le sfumature della gente attraverso la lingua ha rivoluzionato la mia lettura musicale. Particolarmente per i componimenti italiani, in cui le strutture linguistiche riproducono la musica stessa e non una trama da seguire, ma non solo.
Se dovesse scegliere un compositore o un’opera che siano rappresentativi della cultura e dell’identità ebraica, quali sarebbero?
Stante il fatto che la storia della musica non è costellata da miriadi di compositori ebrei, personalmente trovo che quelli che in effetti ci sono stati, si pensi ai Bloch o ai Mendelssohn o ai Mahler, non rappresentino poi granché la complessità della cultura ebraica. Perché vorrebbe dire che per rappresentare l’identità ebraica occorre essere ebrei e musicarne i principi. È una forma mentis un po’ troppo old fashion e naïf. Per quale motivo Bach, Beethoven e Mozart non rispecchierebbero la cultura ebraica? Dal secolo scorso in poi, tra grandi ebrei e grandi non ebrei non vige alcuna differenza.
Allora è doveroso, secondo Lei, rileggere l’identità in un’ottica universale?Esatto, universale e europea. Sebbene io capisca che sia più semplice ragionare utilizzando questi schemi, credo che tutti potenzialmente abbiano le carte in regola per rappresentare tutto. Molteplici influenze ci condizionano, siamo un mix di culture. Mi rendo conto suoni come una provocazione, ma, in un certo senso, alcuni concetti filosofici a cui Wagner si rifà descrivono il mondo ebraico molto più efficacemente di quanto non facciano i Preludi di Bloch.
Quali autori letterari, invece, hanno segnato la sua crescita personale?
Sono un divoratore compulsivo di libri e quindi, durante la mia vita, hanno avuto modo di influenzarmi svariati autori. Teologi, storici, ovviamente musicisti e poeti. In ambito italiano, direi Eugenio Montale.
Alcuni mesi fa ha tenuto un bellissimo discorso alla cerimonia di laurea dell’Università degli Studi del Piemonte orientale in Novara, nel quale suggeriva ai ragazzi, futuri avvocati, di non aver fretta di uscire dall’ombra, di cogliere con umiltà la possibilità che è loro offerta di osservare ed ascoltare, prima di mettersi in luce. È un consiglio che si sentirebbe di espandere a tutti i giovani italiani, che stanno vivendo un periodo difficile da un punto di vista economico, scolastico e lavorativo?
Il mio è stato un discorso idealistico perché, quando hai bisogno di lavorare e trovi l’occasione di farlo, non puoi permetterti di rispondere: “No, grazie. Preferisco stare ancora un po’ qui nell’ombra a procedere per piccoli passi”. Però, il fatto che sia indispensabile non vuol dire che sia pure il sistema giusto di agire. La società in cui viviamo ci spinge a “venire alla luce” il prima possibile, può andare bene come può andare male. E se va male le strade sono due: la follia o l’inconcludenza. Basti pensare, per esempio, a Piero Cappuccilli, uno dei più grandi baritoni che l’Italia abbia mai avuto, che al suo debutto alla Scala nel 1964 aveva già calcato innumerevoli teatri, già cantato in numerosissime recite in tutte le città e province dello Stivale e d’Europa. Oggi, viceversa, se un giovane ragazzo vince una competizione, a breve è invitato alla Scala. La gavetta, la formazione sono fondamentali e l’amara verità è che spesso siamo troppo pigri per affrontarle. Con ciò non intendo affatto dire che la gente risulta ottusa perché internet ha un ruolo tanto preponderante nella nostra quotidianità, bensì che la velocità non è sempre un vantaggio assoluto. Ci sono mestieri, come quello del musicista o, appunto, dell’avvocato, che per essere svolti richiedono una preparazione precisamente approfondita. Il rischio, bruciando le tappe, è di fallire.
Barenboim dice di Lei che è grande perché ha hutzpah. È una ricetta per il successo oppure una condanna?
Deve essere la ciliegina, sempre ben accetta, sulla torta, e non la torta stessa. Noi musicisti combattiamo questo problema tutti i giorni: se le orchestre top rimangono top, le orchestre di provincia sono notevolmente migliorate rispetto a vent’anni fa. Prima esistevano soggetti punteggio 100 e soggetti punteggio 10. Adesso la stragrande maggioranza è composta da 60 e l’arte ci sta rimettendo. Essere hutzpah è quel plus che mi permette di non essere 60, quel plus grazie al quale ho trovato la mia voce nella folla. Il mio insegnante mi diceva sempre: se in una competizione vince il concorrente che è stato votato 60 da tutti i giurati e non chi è riuscito a conquistarsi metà 0 e metà 100, è meglio perdere ottenendo un solo 100.
A soli 33 anni è già stato Direttore stabile o ospite dei teatri più notevoli del mondo. Che ci può dire del suo futuro prossimo? Intenderà prediligere la composizione o la direzione?
No, continuerò assolutamente con la direzione. Non mi dedico alla composizione ormai da 8 anni. Sarà perché le mie orecchie, le mie mani e il mio cervello sono così affollati dalla musica di altri che non riesco più a sentire niente. Dirigo molta contemporanea, vero, ma la mia musica è sparita. Mi pesa? A volte. Forse cercherò qualche progetto, per divertirmi un po’. Ma null’altro.
Durante questa stagione 2014-2015 ha debuttato negli Stati Uniti e debutterà al Royal Festival Hall…
Esatto, è incredibile. Il 10, 11 e 12 ottobre ho debuttato a Pittsburgh con la Pittsburgh Symphony Orchestra, suonando Debussy, il Concierto de Aranjuez di Rodrigo e Tschaikowski. Mentre ad aprile sono stato invitato al Royal Festival Hall per un concerto assieme alla London Philharmonic Orchestra. Non vedo l’ora.
Quanto è rilevante la musica classica per Israele e, a suo parere, cosa può dare Israele al mondo e cosa, nel caso, gli manca?
Israele dà tanto al mondo, ma reputo possa fare meglio. Malgrado promuovano una florida attività culturale, le istituzioni si affidano eccessivamente sul fatto che l’eccellenza ebraica, per sionismo o aliyah, abbia voglia di esibirsi gratis in Israele. Non ci sono abbastanza sostegni economici da parte dello Stato. E, d’altronde, non si può pensare di costruire la migliore orchestra al mondo senza retribuire chi ci lavorerà. Ricordo, ad esempio, un Samson et Dalila all’Opera con la regia di Ivan Reitman: ebbene, Reitman non ricevette alcun compenso.
Se non sbaglio Tel Aviv conta quattro Orchestre…
Sì, e la Filarmonica di Israele è tra le migliori al mondo. Ciò nonostante i grandi talenti della nuova generazione nazionale non ci suonano. Vorrà dire qualcosa… Si sentono sfruttati. E pensare che tornerebbero in un lampo a casa, perché è bellissimo vivere in Israele.
Sente la mancanza di Israele?
No, anche perché ci torno di frequente. Soprattutto per l’orchestra della quale mi occupo, a titolo gratuito, da quasi 10 anni: è casa mia, sono i miei amici ed è molto più che un lavoro. Comunque, a essere onesto, quando atterro a Malpensa mi rassereno. Mi sento a mio agio.
Perché l’Italia ha per Lei un valore particolare?
Io ci vivo benissimo. A Milano, certamente, ma anche in altre città europee: Berlino, Dresda, Londra. Non abitando da anni a Be’er Sheva, non sono più immerso nella propaganda nazionale e tendo a essere critico nei confronti del mio paese. Ho conosciuto e conosco di continuo persone provenienti da tutto il mondo, vedo come vivono e tratteggio le giuste proporzioni.
La musica è più scienza o più arte?
È un ensemble. La musica è sicuramente arte, benché si avvalga anche di una natura scientifica. Si dice che i musicisti siano portati per la matematica, infatti io me la cavo bene. A riguardo, consiglio di leggere il saggio Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante di Douglas Hofstadter.
Nella sua esperienza, il pubblico rincasa sentendosi migliore, oppure passa e va contento di non aver trascorso due ore a rimuginare sullo stress della propria routine? L’ascolto della musica riproduce un momento di crescita culturale ed esistenziale o un semplice stacco, uno spazio da riempire perché altrimenti non si sa che fare?
Corretta osservazione. La musica può e deve incarnare entrambe queste esigenze, tuttavia è essenziale insegnare al pubblico a non ascoltare un concerto nel medesimo modo in cui osserva la mostra di un museo. Mentre la Monna Lisa è la stessa dal 1500, la musica è viva e mutevole: variano le persone che la fanno vivere, si studiano produzioni innovative e dunque non è possibile che uno spettatore si rechi a teatro cercando la Monna Lisa. Inchiodare la musica al muro di un museo è sbagliato, non solo per chi si trova sopra il palcoscenico (molti direttori e registi esigono, ad esempio, che le Sinfonie di Mozart debbano essere rappresentate nella maniera settecentesca), ma anche per chi siede in sala.
Si dice che la musica stia nell’orecchio di chi ascolta, che non dipenda tanto dall’esecuzione in sé ma dal modo in cui viene recepita…
Certo. Spesso mi domandano: allora come mi devo comportare? Io rispondo che è meglio non fare niente, a mo’ di Shabbat. Se stai ascoltando una Sinfonia di Mahler e, sprofondato nella tua poltroncina, col telefono spento in mezzo a un buio religioso, ricordi un episodio o una sensazione passati, ecco, è quello che devi provare ed è quello il modo in cui ci si dovrebbe relazionare a un concerto. Sta tutta lì la bellezza della musica: è un sogno indomabile che ti accende.
Ho fatto riferimento al suo appassionato impegno sociale. Due anni fa ha suonato alla Casa di Riposo “Giuseppe Verdi” in un concerto a quattro mani con Carlo Goldstein e nel 2013 ha ricevuto la carica di Ambasciatore dalla ONLUS israeliana Save a child’s heart, che si occupa della chirurgia cardiaca praticata ai bambini dei paesi in via di sviluppo e della formazione medica. Ci potrebbe raccontare quest’ultima esperienza?
Ti ringrazio per questa domanda. Sono capitato alla Save a child’s heart grazie a un amico perché, stanco di essere associato all’esercito israeliano dai media internazionali, ero interessato ad attività che si svolgessero in Israele senza una degna risonanza informativa. Si tratta di una fondazione la cui missione è effettuare operazioni chirurgiche al cuore di bambini provenienti da situazioni di estrema povertà (soprattutto palestinesi, siriani e libanesi) e occuparsi della formazione professionale nel settore medico. Ad esempio, ho conosciuto un ragazzo che, dopo aver trascorso cinque anni in Israele, ora sta costruendo in Botswana la prima clinica per la chirurgia cardiologica infantile del paese. L’aspetto sorprendente del loro lavoro è che questi piccoli malati arrivano nelle cliniche dell’associazione in modo facile e veloce: zero burocrazia, zero questioni politiche. Se è necessario, io sono il primo a rimproverare Israele, però ogni tanto ci sono capitoli della storia che qualcuno non vuole raccontare. Vedi la Save a child’s heart. Vedi gli ospedali da campo attrezzati da Israele nella zona limitrofa alla frontiera durante i conflitti in Siria, che hanno permesso di curare circa 30000 persone. E non parlo di chi ha ragione e di chi ha torto, e va bene filmare i bambini morti a Gaza per colpa dei bombardamenti purché si parli anche delle migliaia che vengono salvati.
Un motto di Daniel Barenboim è “L’impossibile è più facile del difficile”. Lei ritiene che il lavoro svolto dal Maestro con la sua West-Eastern Divan Orchestra possa aprire un dialogo, non solo in ambito musicale, tra Israele e il resto del mondo?
La West-Eastern Divan Orchestra ha fatto moltissimo per tutti coloro che vi hanno partecipato, pubblico e musicisti, anche se non condurrà alla pace. E, forse, non importa, perché è stata comunque capace di custodire i sogni e la passione di tanta gente. Un loro concerto non verrà mai accolto come una semplice esibizione di alta gamma, porterà sempre con sé qualcos’altro. È un dono.
E Lei ha un suo motto?
Farò mio un pensiero di Moshe ben Maimon che sostiene, in soldoni: D. non ha bisogno di te, non aspettare che venga a cercarti. Insomma, vai tu a cercare Lui. Ecco, io non credo nel destino ma sento fortemente la necessità di dover muovere da solo i passi verso le mie gesta. Come si dice? “Homo faber fortunae suae”.