di Ilaria Myr
«Sono due, secondo il filosofo Gershom Scholem le grandi innovazioni che la fondazione dello Stato di Israele ha portato nella storia e nell’identità ebraica: la prima è che essa ha permesso al popolo ebraico di tornare, dopo molti secoli, a essere soggetto della propria storia, invece che oggetto in balia del buono o cattivo volere delle nazioni. La seconda riguarda la scelta dell’ebraico come lingua moderna ufficiale di questo nuovo Stato-nazione, che da idioma liturgico e dotto è diventato moderno, quotidiano e vivo». La nascita di Israele costituisce una linea spartiacque nella vita ebraica secondo lo studioso Cyril Aslanov, studi di filologia greca e di linguistica alla Sorbona e alla Ecole Normale Superiore di Parigi (rue d’Ulm), ex docente alla Hebrew University di Gerusalemme, professore oggi a Aix-Marseille Université nonché membro dell’Accademia della Lingua ebraica e docente di Letteratura del Corso di Laurea triennale in Studi ebraici dell’UCEI, che parteciperà il 10 settembre a Milano alla Giornata europea della cultura ebraica con un intervento intitolato “Diaspore in cammino: lingue e identità alla deriva”.
«Prima di questa trasformazione fondamentale sono sempre esistite metropoli ebraiche importanti, continua Aslanov: Alessandria d’Egitto, Babilonia, e più tardi Al-Andalus, cioè la Spagna arabo-musulmana, e, ancora, la Grande Polonia del XVI-XVII secolo: ognuna di queste aree è stata, a suo tempo, il centro a cui tutti molti ebrei volgevano gli occhi. Quello che però avviene di rivoluzionario con Israele è che dal 1948 gli ebrei hanno un unico luogo dove vivere e riunirsi».
Attenzione, però, a non cadere nella trappola diffusa di considerare la diaspora come prerogativa del popolo ebraico, avverte Aslanov: armeni nel Medio Oriente, cinesi nell’Asia sudorientale e altre popolazioni minoritarie hanno da sempre avuto un destino simile a quello degli ebrei, molto spesso per motivi commerciali. Come spiega lo studioso: «sono molte le realtà – fra cui anche quella ebraica -, che, sotto la spinta degli eventi, hanno dovuto fare di necessità virtù, reinventando la propria vita, e trasformando così la sciagura dello sradicamento nel vantaggio della mobilita nel ambito di una rete transnazionale ben organizzata».
Quello che certamente ha da sempre caratterizzato la diaspora ebraica è il fatto di essere “transnazionale”, cioè basata su forti scambi e legami indipendenti dalla vicinanza geografica. Che fosse per sposarsi con persone della propria origine, per gestire affari commerciali o per scegliere la yeshivà migliore dove studiare, gli ebrei hanno sempre agito basandosi su reti di conoscenze – dirette o indirette, ma comunque ritenute affidabili – che davano sicurezza anche se portavano a viaggiare o trasferirsi altrove. «Basti pensare agli ebrei portoghesi – continua Aslanov -, che a Amsterdam tendevano ad avere contatti solo con connazionali, preferendo addirittura trattare con conoscenze ancora residenti in Portogallo – alcune volte recandovisi fisicamente in quella “terra di idolatria” e fingendo provvisoriamente di essere cattolici per nascondere la propria identità ebraica – piuttosto che avere a che fare con i loro correligionari askenaziti di Amsterdam».
E la lingua? Fino alla creazione della grande “casa nazionale” gli ebrei nel mondo avevano in comune solo l’uso dell’ebraico nella liturgia e nella cultura religiosa, ma ogni centro diasporico aveva la sua lingua quotidiana, basata su quella del luogo di origine. Si creava quindi una “diglossia”, un bilinguismo fra sfera culturale e religiosa e vita quotidiana con, in quest’ultima, alcuni casi di “ebraicizzazione” (si pensi al giudaico-romanesco o al ladino). Dal 1948, però, Israele è diventato, insieme agli Stati Uniti, il polo intorno al quale gravita l’identità ebraica mondiale, con conseguenze anche sulla sfera linguistica. «A seconda del Paese, si è più vicini a Israele o agli Usa – spiega-: l’Italia, ad esempio, è più attratta dallo Stato ebraico, mentre il Venezuela è più orientato verso gli Stati Uniti. In ogni caso, un fatto è certo: l’ebraismo di oggi non può prescindere da uno di questi due poli».