di Ilaria Myr
“Quando si ha una Comunità ebraica? Quando gli ebrei danno vita a una realtà organizzata? Oppure quando semplicemente esistono in un luogo degli ebrei? O, ancora, quando quelli che pensano di farne parte? La verità è che oggi non esiste un significato preciso di ‘comunità'”. Dà così inizio alla seconda giornata di Moked 2013 Clive Lawton, ricercatore e insegnante presso il London Jewish Cultural Centre e cofondatore di Limmud, organizzazione che dà vita alla conferenza annuale per ebrei di tutto il mondo e di tutte le correnti. Un intervento, quello di Lawton, che ha il merito di dare un’interpretazione dell’organizzazione delle comunità ebraiche italiane, partendo da un’analisi dei vari modelli esistenti nel mondo: uno sguardo, quindi, a 360 gradi, che spinge a guardare altrove per capire meglio quello che abbiamo in casa.
Il punto di partenza è la divisione del mondo ebraico in cinque grandi comunità: Israele, Usa, Sud America, Europa orientale ed Europa occidentale.
“In Israele non esiste una comunità ebraica – ha spiegato. La sinagoga è sentita come un servizio, e il senso di comunità fra le persone che la frequentano è limitato. Chi è arrivato qui, scappando dalle persecuzioni in Europa, ha delegato la responsabilità religiosa allo Stato ebraico”.
Anche negli Stati Uniti, però, è difficile individuare un senso collettivo di comunità come lo intendiamo noi in Europa, perché lì regna invece un approccio individuale, fin dall’arrivo degli ebrei, nel XIX secolo. “Erano persone che, sotto la pressione delle discriminazioni in Europa orientale, volevano migliorare la propria vita, alla ricerca di una libertà che fino ad allora non avevano avuto – continua Lawton. Questo vale anche per la religione: ognuno vuole scegliere e decidere da solo cosa significhi essere ebreo. E ciò, inevitabilmente, ha portato, alla nascita delle forme più disparate di ebraismo. Ma alla base c’è sempre la volontà di soddisfare l’individuo singolo, e questo non è comunità”.
Totalmente diverso è invece il panorama dell’ebraismo in Sud America, “una strana creatura”, secondo Lawton, in cui esistono centri ebraici enormi ed estremamente organizzati, scuole ebraiche molto efficienti, ma in cui non si ha una vera dimestichezza con la discussione religiosa.
Vi è poi l’Europa Orientale, dove non esistono comunità ebraiche, ma dove lentamente si stanno riscoprendo le radici. Qui, però, esiste un ebraismo non halachico, in quanto molti sono ebrei solo di padre. “L’idea dell’appartenenza al popolo ebraico è forte, ma non ha nulla a che fare con la religione”.
Infine, l’Europa centrale e occidentale, che ha conservato il modello del XVII secolo: non un modello individualista, all’americana, ma neanche secolare, come quello latino, o “nazionalista” come in Israele. “Qui vige uno strano mix basato sulla religione – continua Lawton -, dal momento che viviamo in un continente definito dalla religione, intorno alla quale sono state create delle comunità. Gli ebrei si considerano dunque un popolo, in cui viene riconosciuto come ebreo anche chi ha idee diverse dalle nostre”. Un pluralismo di idee e posizioni, dunque, che convivono all’interno dello stesso mondo: certamente con tensioni e attriti, ma pur sempre sotto lo stesso cappello.
Mentre negli Usa all’interno dell’ebraismo nascono di continuo nuove correnti – anche se pochissime riescono a sopravvivere -, in Europa ciò avviene molto raramente.
Di questo mondo europeo fa parte, ovviamente, anche l’Italia che secondo Lawton, assomiglia molto al Messico. “Come l’Italia il Messico è un paese molto tradizionalista, dove è diffuso un senso molto caloroso di comunità” – spiega lo studioso. “L’Unica differenza fra i due paesi è che in Messico la maggioranza degli ebrei è riunita nella capitale, a Città del Messico, mentre in Italia la presenza ebraica è molto più distribuita”.
Oggi, però, fenomeni come l’immigrazione e la molteplicità di idee stanno impattando sulle società europee, e si riflettono anche sugli ambienti ebraici, ponendo ai suoi membri pesanti quesiti. Quanta diversità ci può essere all’interno della stessa comunità? Possiamo considerarci una ‘comunità’ se lasciamo spazio a chi ha non solo opinioni diverse dalla maggioranza, ma anche una diversa concezione dell’essere ebrei? Possiamo/dobbiamo includerle? E come?
“La Comunità è un luogo di compromessi – osserva Lawton, perché si convive con persone che magari non ci piacciono, o di cui non condividiamo le idee. Ma se così non fosse, se cioè la pensassimo tutti allo stesso modo, ci troveremmo all’interno di un club, e non di una comunità”.
“Il pluralismo è ciò che rende tale una comunità. Perché dobbiamo sentirci frustrati per le diversità o i contrasti che si formano all’interno delle nostre comunità, visto che sono proprio questi l’essenza stessa dell’essere ‘comunità’?”
“Le comunità ebraiche italiane – conclude Lawton – viste nel panorama complessivo dell’ebraismo, rappresentano per certi versi un caso isolato, singolare, ma di cui essere fieri. Cercate di rendere questa realtà sempre più calda, accogliente, e sempre migliore”.