di Ester Moscati
Jonathan Safran Foer
È lo scrittore che più di tutti ha saputo incarnare la nuova identità ebraica della Diaspora contemporanea. Con Eccomi, – il celebre Hinneni di Avraham -, l’autore ebreo-americano torna al romanzo, dopo undici anni. Un gigantesco arazzo in cui entrano in gioco alcuni grandi temi: le identità multiple (sposo/amante/genitore; ma anche ebreo/israeliano/americano), il gap generazionale, la responsabilità condivisa. E sullo sfondo un’ombra angosciante: la distruzione di Israele.
JSF è a Milano, la sera del 1 settembre, al Teatro Franco Parenti, dove presenterà Eccomi, con il giornalista Marco Missiroli. Letture di Elia Schilton.
«È una fedele espressione di ciò che sono. Credo di essere riuscito a mettermi a nudo, a rivelare la mia vera essenza in questo libro. In un certo senso, mi ha lasciato molto vulnerabile, esposto; aspetto con trepidazione, ma anche con un entusiasmo estremo, la pubblicazione e le reazioni dei miei lettori». Così Jonathan Safran Foer, uno degli scrittori americani più amati della sua generazione già dopo il suo esordio, ad appena 25 anni, con Ogni cosa è illuminata, parla di Here I am, il suo nuovo romanzo che esce a undici anni di distanza da Molto forte incredibilmente vicino.
In Italia lo pubblica, quasi in contemporanea con l’uscita negli Stati Uniti, l’editore Guanda con il titolo Eccomi e la traduzione di Irene Abigail Piccinini (è in libreria dal 29 agosto, negli Usa il 6 settembre). Sono 665 pagine che coinvolgono profondamente il lettore in una esperienza culturale, emotiva, politica e sentimentale a tutto tondo. «Attendo con ansia soprattutto il processo di condivisione profonda con i lettori – confessa Jonathan Safran Foer – che è per me il vero scopo della scrittura. Non dev’essere per forza una comunione felice; non ho problemi se la gente è in disaccordo con quello che scrivo. Aspetto soprattutto quel tipo di coinvolgimento che non è semplicemente l’opinione delle persone, di apprezzamento o critica, ma che riguarda piuttosto una intima comunione e il dialogo che si sviluppa a partire da ciò che scrivo. È questo l’obiettivo della mia scrittura».
Safran Foer ha partecipato all’Edimburgh Book Festival in agosto e in Italia incontra il suo pubblico il 31 agosto a Torino, al Circolo dei Lettori e a Ivrea alla Sala S. Marta. Poi a Milano (il 1 settembre, ore 21, Teatro Franco Parenti. Lo presenta Marco Missiroli con letture di Elia Shilton) e a Mantova, il 3 settembre, ospite del Festivaletteratura.
Le domande che suscita il libro vanno dalla tradizione ebraica alla famiglia, dalla sua identità multipla di ebreo/americano/scrittore/genitore, al significato della parola “casa”, dal suo rapporto con Israele fino all’idea sionista.
Ma iniziamo dal titolo, Eccomi.
«Il riferimento è chiaramente biblico: Hinneni – spiega Safran Foer -. È ciò che risponde Avraham al Signore che lo chiama, per chiedergli di prendere suo figlio, il suo unico, colui che ama, e sacrificarlo sul monte Moriah. Ma Hinneni è ciò che risponde il Patriarca anche a suo figlio Isacco, che lo invoca per chiedergli dove fosse il korban, il sacrificio. E ancora una volta, Avraham risponde Hinneni all’angelo del Signore che gli dice di fermare la sua mano e il coltello che è già sulla gola di Isacco. Avraham non risponde ‘che cosa vuoi’ ma ‘eccomi’, ci sono per te, con tutto me stesso. Ma come si può ‘esserci con tutto se stesso’ per Voci diverse? È la chiave dell’identità ebraica. Essere compiutamente cose diverse. Esserci sempre, con tutto ciò che siamo, per chi ha bisogno di noi. È qualcosa di paradossale, Avraham che c’è, allo stesso tempo, per Dio che lo chiama e gli chiede di uccidere il figlio; per il figlio che gli chiede di proteggerlo; e anche per l’angelo che ferma la sua mano dal sacrificio. Avraham c’è per tutti coloro che lo chiamano. Questo definisce la sua identità».
Ma a “esserci con tutto se stesso”, a rispondere “Eccomi” ai suoi lettori, è anche l’autore, che si mette in gioco e si offre con le sue riflessioni politiche, la sua visione ebraica della vita e della famiglia, i suoi sentimenti più profondi e contradditori, spesso inesprimibili fino in fondo. La doppia tragedia del libro è la distruzione del matrimonio dei protagonisti, Jacob e Julia, per un tradimento (reale o virtuale poco importa), cui fa da contraltare la distruzione di Israele – vittima di un terremoto apocalittico che distrugge le infrastrutture del Paese, poi invaso dagli arabi e tradito dai suoi alleati – che aleggia fin dalla prima frase del romanzo, in una distopia angosciante che poi resta sospesa e solo nelle ultime pagine si chiarirà in tutti i suoi aspetti.
La fine di un matrimonio, dunque. Jonathan Safran Foer, nato a Washington nel 1977, newyorkese d’adozione, ha divorziato nel 2014 dalla moglie, la scrittrice Nicole Krauss, madre dei suoi due figli. Ma quanto c’è di autobiografico nel divorzio dei personaggi Jacob e Julia? «Niente,- risponde – Non c’è nulla di autobiografico riguardo a fatti specifici. La maggior parte delle pagine che ho scritto sul divorzio di Jacob e Julia, precede il mio divorzio di un paio d’anni. E i bambini protagonisti del libro non sono affatto come i miei figli. Detto questo, il libro è espressione della mia personalità. Io non sono Jacob, ma attraverso l’insieme di tutte le voci del libro, io sento me stesso. Come dice Jacob a proposito della serie tv di cui è autore “Non è la mia vita, ma è me”. Inoltre, le esperienze che mi hanno cambiato in questi anni mi hanno reso più maturo e consapevole anche come scrittore. Sono diventato uno scrittore diverso, perché in dieci anni sono diventato un uomo diverso».
Dieci anni è l’età del suo figlio maggiore, Sasha, e non è un caso che in questo periodo di tempo Safran Foer non abbia pubblicato altri romanzi, ma un saggio importante come Eating Animals (pubblicato sempre da Guanda con il titolo Se niente importa), che ha cambiato la vita a molta gente spingendola a diventare vegetariana («Il libro è nato dal voler essere un genitore più consapevole verso la salute di mio figlio», disse allora Jonathan); poi una traduzione, con Nathan Englander, dell’Haggadah di Pesach, e Tree of Codes, una rielaborazione testuale e grafica di un racconto, The Street of Crocodiles, tratto dal suo libro preferito, Le botteghe color cannella di Bruno Schulz.
Lo scrittore messo a nudo
«Essere uno scrittore, nell’infanzia di mio figlio, non era per me la priorità rispetto all’essere padre», spiega. Ed essere padre, anche per il protagonista Jacob, è affare molto serio e impegnativo. I tre ragazzi, Sam, Max e Benjy, sono tre figure delineate in modo estremamente interessante e profondo. Intelligenti, brillanti, capaci di una sincerità disarmante, sono protagonisti tanto quanto i loro genitori e l’autore riesce, tramite loro, a delineare un quadro sociologico che, lontano dall’essere anche solo minimamente pedante, lascia entrare in un mondo – quello dei giovani ebrei americani – che diventa nel corso della lettura un elemento di riflessione coinvolgente anche per tutti i lettori/genitori ebrei italiani. La privacy, l’identità, la tecnologia (l’alterità di Other life) che separa e allontana adulti e ragazzi, i valori non più condivisi: sono tutte questioni che conosciamo bene anche qui. Figli che sono più consapevoli di quel che gli adulti pensano e forse sperano. Giovani che odiano l’ipocrisia dei grandi. Famiglie ebraiche che fanno di tutto per instillare nei figli l’identità ebraica, tranne che vivere una vita ebraica. Perché in famiglia si ritiene di avere il diritto di farsi reciprocamente del male?
E poi ci sono le altre figure famigliari: Julia, moglie/madre/amante, che non riesce a confessare – forse nemmeno a se stessa – il sogno della solitudine, pur essendo verso i suoi figli una mamma-gatta, affettuosa, presente, vicinissima. Irv, il padre di Jacob, è “ingombrante” nella sua logorrea a senso unico, ossessionato dall’antisemitismo, islamofobo e vicino alla destra israeliana, di quelli che dicono “boicottate Israele? Allora spegnete i cellulari/la tecnologia/le medicine…”. E ancora Isaac Bloch, sopravvissuto alla Shoah, il bisnonno amatissimo dai nipoti.
C’è anche la “famiglia israeliana” che va a Washington per il Bar Mitzvà di Sam e lì rimane bloccata dopo il terremoto in Israele. Il cugino di Jacob, Tamir, è un alter ego più potente. Più forte, più robusto, più determinato, più maturo, più ricco. Mentre Jacob si trastullava al college, Tamir faceva carriera nell’esercito. “Tu non hai abbastanza problemi”, gli dice di fronte alle elucubrazioni mentali del cugino. Eppure, i desideri e gli orizzonti di Tamir sembrano più materialistici e alla fine più superficiali (una casa sempre più grande, un’auto sempre più potente), rispetto alle domande, alle aspirazioni spirituali e umane di Jacob (essere un buon padre, un buon figlio, un ebreo consapevole).
Molti sono i registri narrativi che fanno di Eccomi un romanzo epocale. Uno dei più coinvolgenti è quello del rapporto con il sionismo e Israele, con l’identità ebraica diasporica. Impossibile non chiedersi perché si introduce nell’incipit lo spettro della distruzione di Israele e poi non se ne parla per 300 pagine. È come un peso identitario che si vuole rimuovere? Perché un terremoto? Dio mette fine a qualcosa, a un mondo che non gli piace, come ha distrutto – secondo la Qabbalà – molti mondi prima di questo? Di fronte alla imminente fine di Israele, tutta la Diaspora è chiamata all’Alyià; ben pochi rispondono. Jacob dice “Eccomi”, ma poi… “La sensazione di essere a casa stava scomparendo”. È l’ebreo americano che alla fine pensa di poter vivere senza Israele? Molti dialoghi, incalzanti, ritmati, profondamente realistici, in diverse parti del libro ci dicono che non è così.
«Mentre ogni conversazione riguardo Israele ha un aspetto politico, – risponde Safran Foer – scrivendo questo libro il mio interesse è stato rivolto piuttosto ad analizzare come la specifica crisi di cui parlo ha coinvolto questa specifica famiglia, come ha portato in primo piano le domande che erano latenti, e abbia così forzato i protagonisti a compiere una scelta. Israele è sia la “patria ebraica”, sia un surrogato di casa . È allo stesso tempo un luogo letterale e un’idea . La frase “non avere una scelta è anche una scelta” ricorre in vari punti del libro. Ho voluto la “distruzione di Israele” e la “distruzione” della famiglia per costringere le persone a fare delle scelte».
Ma che cosa rappresenta, per Jonathan Safran Foer, Israele? «È un luogo speciale; il mio personaggio, Jacob, rispecchia i miei sentimenti. Sono un ebreo americano che si sente parte di Israele, pur rimanendone fisicamente lontano».
Un romanzo profondo e articolato sui temi dell’amore, del rispetto e della famiglia, con un focus specifico sull’identità ebraica, con pennellate di umorismo, citazioni peccaminosamente alla Philip Roth, si trasforma, a pagina 300, in un romanzo distopico e angoscioso, che apre la porta però ad un altro piano di riflessione, quello politico, non meno coinvolgente. Notevole l’elegia funebre del giovane rabbino al funerale di Isaac Bloch: nelle sue parole, c’è tutto l’ebraismo, antico e contemporaneo.