di Sofia Tranchina
Lunedì 16 dicembre, al Circolo Caldara, si respira un’atmosfera densa, sospesa tra commozione e dolore. A parlare – invitata da Noemi Di Segni – è Ella Mor, la zia dei bambini Michael e Amalia, sopravvissuti al massacro del 7 ottobre nascondendosi in un armadio dopo aver assistito all’omicidio dei genitori, e della piccola Abigail, che a soli tre anni è stata portata come ostaggio a Gaza, dove è rimasta 51 giorni.
Con un elegante tubino nero e la fronte alta nonostante il fardello che porta con sé, Ella, che ha trasformato il suo dolore in una missione, è arrivata con il figlio tredicenne Noam. «Mi faccio sempre accompagnare da un parente o un amico nei miei viaggi di divulgazione, altrimenti non reggerei», confida prima della conferenza.
La serata si apre con le parole intense e dirette di Andrée Ruth Shammah, che coinvolge la platea in un esercizio di immedesimazione. «Cercate di immaginarvi un bambino in ostaggio», dice. «È inimmaginabile. Ora provate a immaginarlo con il volto di vostro figlio». L’invito è chiaro: non basta compatire, bisogna agire. Un’immagine simbolo guida il pensiero: la clessidra installata della Piazza degli Ostaggi a Tel Aviv, che non solo misura i giorni, ma scandisce anche ore e minuti, mostrando l’insostenibile flusso del tempo, che per le famiglie degli ostaggi rimane immobile. Un eterno presente fatto di attesa e paura.
Con voce chiara, Ella Mor racconta l’orrore del suo 7 ottobre familiare. «Fino a quella data ero solo la mamma di Noam e Yehonatan e una farmacista di rimedi omeopatici a Jaffa». Poi, il suono delle sirene e la notizia: il kibbutz di Kfar Aza è sotto attacco. Ella cerca freneticamente di contattare la famiglia: Smadar e Roee, con i figli Michael (9 anni), Amalia (7 anni), e Abigail (4 anni). Alla chiamata risponde il piccolo Michael: «mamma e papà? Non te li posso passare al telefono…», dice il bambino con voce spezzata. «Perché no?». «Sono stati uccisi».
«Non c’erano ambulanze, non c’era esercito, non c’era polizia», ricorda Ella, descrivendo il senso di abbandono e impotenza. In preda alla disperazione, scrive un post su Facebook, chiedendo aiuto. In poche ore il suo messaggio diventa virale, spargendo la notizia dell’attacco di Hamas prima dei media ufficiali. Il post però attira anche odio, raggiungendo anche paesi arabi come Iraq, Marocco ed Egitto: messaggi di insulti, video dalle bodycam di Hamas che mostrano la violenza con orgoglio, la disumanizzazione dell’“altro”. Gli amici le consigliano di cancellare il post, ma Ella non cede. Grazie a quel messaggio, riservisti e soldati riescono a localizzare Michael e Amalia, rimasti nascosti in un armadio per quattordici ore.
Quando i bambini vengono liberati, il silenzio inghiottisce Michael. Amalia, invece, racconta in ripetizione la scena della morte dei suoi genitori. Ella ascolta tutto. «Nonostante l’orrore che provavo, mi sono imposta di farne memoria, nel caso lei, che ha solo sette anni, dovesse dimenticarla».
Nel frattempo, la sorellina minore, la piccola Abigail, che era corsa dalla sua migliore amica, è scomparsa. Si teme sia stata uccisa. Poi la conferma: è viva, ma ostaggio a Gaza. «Immaginavo l’inferno: una bambina orfana nelle mani degli assassini dei suoi genitori».
Quando il governo israeliano propone il primo negoziato, Ella fatica ad accettare un accordo che preveda il rilascio di soli bambini e madri, lasciando indietro gli altri ostaggi.
Raggiunto l’accordo, non si sapeva se Abigail sarebbe stata liberata, perché sua madre in passato aveva lavorato con i servizi segreti interni israeliani. «Non è tornata il primo giorno. E neanche il secondo giorno. E nemmeno il terzo. Ero convinta ormai che l’avessimo persa, ero disperata. Non volevo che più ricevere la chiamata che mi annunciava che Abigail non era stata rilasciata, quindi ho chiesto: se la mettono nella lista dei liberati, mandatemi solo un’emoji». La domenica 26 novembre, sul suo telefono arriva un cuore gigante. Abigail era nella lista.
L’arrivo dell’elicottero con a bordo Abigail è una scena surreale. L’impatto dell’aria sposta Ella e i familiari, facendoli cadere a terra. «Ero sdraiata a terra, gridavo, ridevo, piangevo». Quando la bambina chiede un succo d’uva e una corona da principessa, il contrasto è immediato: l’infanzia violata e il desiderio di ritrovare la normalità.
Ma per Ella Mor la missione non è finita. Quella stessa sera promette: «Non lascerò la famiglia degli ostaggi. Finché ce ne saranno ancora – e ce ne sono ancora cento – la mia vita non ha senso». Da allora, la sua attività pubblica è incessante: conferenze, manifestazioni, eventi sportivi, incontri con gruppi stranieri. Porta la questione degli ostaggi persino alle Olimpiadi di Parigi, formando gli atleti israeliani su come sensibilizzare il mondo.
«Raccontare questa storia mi aiuta a riparare il mio cuore, un pezzetto alla volta»: così spiega il suo impegno e la sua battaglia.