di Anna Balestrieri
“Israele ha votato: e ora che cosa si fa?”. È su questo interrogativo e sul futuro di Israele che si sono interrogati dopo le (ennesime) elezioni nell’incontro di mercoledì 30 novembre i relatori invitati dall’Associazione Italia Israele di Milano in collaborazione con Fondaco Europa e Lekh Lekha.
Nella sua breve introduzione il moderatore Davide Assael, Presidente di Lekh Lekha, ha evidenziato come per la prima volta dopo molti anni e tentativi sia “emersa dalle urne una maggioranza chiara, (…) molto caratterizzata, e la sfida del vincitore Likud capeggiato dal suo leader Netanyahu sarà mantenere unita la sempre più diversificata e polarizzata società israeliana”. Assael ha suggerito la necessità di iscrivere la conversazione nel contesto del complesso scenario geopolitico degli ultimi mesi, che con lo scoppio della guerra in Ucraina ha visto il consolidamento di alleanze strategiche, con un avvicinamento dell’Iran alla Russia.
Gli ha fatto eco Arcangelo Boldrini, presidente dell’associazione Italia Israele di Milano, che ha ricordato quanto oltre al preoccupante quadro internazionale si siano aggiunti i copiosi attentati di quest’ultimo anno ad inasprire un “panorama in cui le democrazie occidentali stanno vivendo un oggettivo momento di difficoltà poiché fasce dell’opinione pubblica guardano a queste esperienze autoritarie o a chi le evoca come la soluzione dei problemi e non come il problema”. L’allusione è al successo dei partiti nazionalisti nelle elezioni italiane, svedesi ed ungheresi. Boldrini ha messo in guardia circa la spirale delle fasi – il tempo della paura, il tempo dell’odio e il tempo della violenza -, auspicando che la riflessione ci aiuti ad “armarci contro queste derive”.
Della Pergola: “Hanno guadagnato seggi due partiti che vogliono un paese teocratico”
Sergio Della Pergola, massimo esperto mondiale della demografia ebraica e professore emerito all’Università Ebraica di Gerusalemme ha dialogato con Marco Minniti, ex ministro dell’Interno nelle file del Partito Democratico e presidente dell’associazione Med-Or.
Della Pergola, dopo aver da subito palesato la propria non appartenenza al campo dei vincitori delle elezioni, ha spiegato per sommi capi i meccanismi della legge elettorale israeliana (proporzionale) e la sua somiglianza con l’analoga italiana. Un sistema che privilegia il partito al singolo e che non prevede la scelta diretta dei parlamentari da parte degli elettori. Questa legge, che favorisce l’aggregazione di coloro che temono di non cadere nel 3,25 per cento necessario a superare lo sbarramento, ha visto il fallimento di Meretz, “il partito radicale della sinistra democratica che per soli 3000 voti non ha raggiunto la soglia di ammissione”. Con esso ha perso anche Ballad, un partito arabo ultranazionalista ed anti-israeliano, la cui partecipazione alle elezioni è una delle dimostrazioni dell’illegittimità di chi definisce Israele uno Stato d’apartheid. Esso è invece un “sistema ampiamente fondato sulla divisione dei poteri, al vertice del quale esiste una Corte Suprema estremamente capace e indipendente e quindi nello stato di diritto la decisione è stata quella di consentire la partecipazione di persone al voto come diritto fondamentale, anche a forze fondamentalmente antidemocratiche”.
Così hanno guadagnato due seggi due partiti che vorrebbero che Israele fosse uno stato teocratico, determinando una radicalizzazione della coalizione capeggiata dal Likud un tempo nazional liberale ed ora nazionalista sotto la spinta di Netanyahu, con una schiacciante sconfitta della sinistra pacifista e lo sfruttamento della politica delle identità per distogliere l’attenzione dai pressanti temi sociali, dal caro vita al terrorismo palestinese.
Minniti: “Israele è un Paese diviso: Nethanyahu deve unirlo”
“Le componenti estremiste nella nuova coalizione fanno sembrare Netanyahu moderato”, è intervenuto scherzosamente Minniti. L’onorevole ha sottolineato la grande novità degli Accordi di Abramo con i paesi arabi, che accentuano la rilevanza di Israele nello scacchiere geopolitico mondiale grazie ai rapporti di fiducia progressiva e crescente, fondamentali, inter alia, per scongiurare un conflitto arabo-israeliano. “Se fossi Netanyahu non farei scelte di discontinuità con il governo precedente”, ha commentato Minniti. “Israele è un paese profondamente diviso, è spaccato come una mela: governando facendo il capo di una parte soltanto della mela può produrre danni rilevantissimi. Quando uno è il capo di una mela divisa esattamente in due, il suo mandato fondamentale deve essere quello di cercare di tenere insieme la mela (…), anche in un paese come Israele che ha dimostrato in questi anni, a differenza dell’Italia, di avere un ‘sistema paese’ che regge indipendentemente dalle divisioni politiche”.
È fondamentale quindi che il nuovo governo unisca, ribadendo quel ruolo fondamentale di Israele nei processi di pace mondiale che Minniti vorrebbe che il paese giocasse “da protagonista”. “Netanyahu ha un’opportunità che non è mai stata così netta di far giocare un ruolo al suo paese” conclude il presidente di Med-Or: “se dovesse far scattare una resa dei conti interna, quella mela spaccata potrebbe diventare una mela avvelenata”.
I timori dell’ex deputato si riflettono pienamente nell’analisi del demografo. “Rotsim memshala shel yamin maale” (vogliamo un governo di destra piena), è stato lo slogan di Netanyahu per queste elezioni. Leggi: siamo la mezza mela e l’altra mezza vogliamo delegittimarla. Il pericolo è che riforme come quella del sistema giudiziario comportino una sostanziale modifica dell’equilibrio fra i poteri, “ossia la sentenza della Corte Suprema che ha dichiarato illegale una legge può essere annullata da una maggioranza parlamentare di 61 su 120”. La cancellazione di un organismo che riequilibri gli eccessivi poteri attribuiti dal popolo al parlamento ed i conseguenti eccessi potrebbe danneggiare “la grande rispettabilità di Israele sullo scacchiere internazionale” finora mantenuta.
D’altronde, ha ricordato con amarezza Della Pergola, “le leggi razziali fasciste del 1938 sono state votate da un parlamento che, in un modo o nell’altro, -sia pure grottesco – era stato eletto e sono state votate quasi all’unanimità. Quindi in teoria un parlamento che esprime la volontà del Popolo può fare quello che vuole: in questo momento la Corte suprema può frenare, se però le si toglie questa capacità il sistema cambia e non è più una classica democrazia”. L’emerito della Hebrew University ha espresso preoccupazione anche circa una seconda proposta, che vorrebbe che i “giudici della corte suprema vengano eletti dal governo e non da una commissione indipendente paritetica”.
Il nodo cruciale si configura quindi nella necessità di conservare la democraticità di Israele, così da non danneggiare la sua credibilità in ambito internazionale né l’identità di parte dei suoi cittadini che potrebbero sentirsi “meno rappresentati da questo tipo di regime”.
“Israele è di fronte a un bivio”, conferma Minniti: “Netanyahu ha di fronte un’opportunità e l’opportunità è quella di accrescere il prestigio internazionale del suo paese e quindi anche di lui primo ministro”, nella mediazione nei rapporti raffreddati tra gli Stati Uniti ed i paesi arabi e nella questione nucleare iraniana. “L’unica cosa che Israele in questo momento non può fare”, ribadisce l’ex deputato, “è fare i conti con se stesso, perché il mondo ha bisogno di un Israele protagonista del mondo e con il mondo, non di un Israele che fa i conti con se stesso”.
“Il timone è in mano a Netanyahu e alle grandi scelte che saprà fare, rivelandosi un grande uomo politico oppure un piccolo attivista che porta il paese verso una direzione estremamente pericolosa”, conferma Della Pergola, una deriva che ammicca in maniera becera alla “mano dura” dei populismi di destra europei ed americani di fronte a due fenomeni reali, il terrorismo capillare ma non organizzato e l’antisemitismo crescente, quello che ha visto politici italiani fare grossolani strafalcioni antisemiti cercando di rimediare con un ancora più agghiacciante “alcuni dei miei migliori amici sono ebrei”.
L’orizzonte del demografo è quello del centenario di Israele nel 2048. Che paese sarà? “Uno Stato ebraico, uno stato binazionale, uno stato democratico oppure uno stato totalitario?”
Alla domanda su “Quale sarà la percentuale della fascia religiosa nazionalista rispetto a quella laica nell’arco dei prossimi anni?”, Della Pergola ha menzionato un proprio articolo in cui analizza le prospettive da oggi fino al 2050: circa i due terzi dei giovani in età scolare, secondo le statistiche, sono previsti “essere giovani molto ortodossi e questo implica una trasformazione che sale dalla base e che richiede ovviamente impegno, strutture, preparazione. Questa popolazione, nella misura in cui si integra economicamente fa certamente parte del progresso della società; nella misura in cui non lavora, non apprende la matematica, non apprende l’inglese, ha perfino una conoscenza abbastanza approssimativa dell’ebraico e ovviamente nessuna conoscenza della storia è una popolazione che ha capacità produttive estremamente limitate e – a parte il senso di estraniamento dalla società, porta il paese a un impoverimento drammatico. Essendo Israele uno Stato Sociale, sviluppato – attraverso l’istituto per la previdenza sociale – [in un sistema in cui] chi ha finanzia chi non ha, certamente per poter finanziare chi non ha ci vuole abbastanza persone che abbiano e se la bilancia si inverte allora non è più possibile finanziare nessuno e tutti diventano più poveri. Questo è l’altro grande dilemma del futuro di Israele, in parte compreso all’interno dei circoli più tradizionalisti – e ci sono delle trasformazioni in corso – ma tuttora molto lontano da una soluzione che dia fiducia. Per mantenersi, come diceva prima Minniti, il sistema paese deve avere comunque dei pilastri su cui si regge, perché se no diventa molto sbilanciato e quindi molto debole”.
Molte questioni aperte ed altrettanti spunti di riflessione, dunque. Sperando di non rivedersi presto alle prossime elezioni.