di Ilaria Myr
«Hamas è come lo stato islamico, come al Qaeda, è una minaccia terroristica mondiale, è la terza varietà della vecchia Idra che abbiamo conosciuto con al Qaeda. Quando gli americani combattevano al Qaeda c’era intorno a loro una coalizione, quando i francesi attaccavano lo stato islamico a Mosul avevano una folla intorno, perché si sapeva che era una guerra per la civiltà. Ma ora che gli israeliani attaccano Hamas – che è la stessa cosa di Isis e Al Qaeda, è un’atra varietà dello stesso virus -, gli israeliani sono soli». Sono parole chiare e taglienti quelle con cui il filosofo, scrittore e giornalista Bernard-Henri Lévy ha parlato lunedì 23 settembre al Teatro Franco Parenti, dialogando con il giornalista Maurizio Molinari, direttore La Repubblica, in occasione della presentazione del suo nuovo libro Solitudine di Israele, edito da La nave di Teseo. Un testo lucido e coraggioso – coraggiosa anche la casa editrice a pubblicarlo – in cui Lévy, analizza lo stato di isolamento in cui Israele si è trovato dal 7 ottobre, giorno del pogrom da parte di Hamas, che ha portato all’uccisione di oltre 1200 persone in una sola giornata, a violenze e al rapimento di 260 persone fra anziani, bambini, donne e malati. “Una solitudine incomprensibile” ha precisato Lévy.
Hamas è Amalek
Alla domanda di Molinari sul perché abbia intitolato un capitolo “Amalek è tornato”, il filosofo ha risposto: « Amalek è nella Torà il più antico nemico del popolo ebraico e soprattutto il più radicale. È colui che non vuole solo sconfiggere gli ebrei, tagliare in due il regno d’Israele, o prendere terre, ma cancellarlo dalla faccia della terra. E quando sentiamo a Gaza, ma anche nelle università americane, francesi e italiane, “From the river to the sea, Palestine will be free” vuole dire che bisogna cancellare gli 8 milioni di ebrei che ci sono fra il fiume Giordano e il mare mediterraneo, eliminandoli o cacciandoli come è stato fatto dal 1948 nei paesi arabi. E questo cos’è se non il ritorno di Amalek?»
Non empatia, ma esplosione dell’antisemitismo
Maurizio Molinari gli ha poi chiesto perché dopo il 7 ottobre, pogrom dopo il quale ci si sarebbe aspettati solidarietà e pietà per le vittime, sia invece aumentato l’antisemitismo.
«Anche questo per me è un mistero – ha confessato il filosofo -. Le manifestazioni di sostegno a Hamas non sono cominciate con la risposta israeliana, ma dal 7 ottobre la sera. Il primo ministro di un grande paese membro della Nato, Erdogan, l’8 ottobre ha fatto un discorso di elogio a Hamas, movimento di resistenza, che aveva ragione nel fare quello che avevano fatto. Nelle università americane grandi professori hanno detto che era uno dei giorni più belli della loro vita. C’è una sola spiegazione: l’odio era già presente ma contenuto, tutto di un colpo è stato liberato. La mia tesi è che quello che fa sì che l’odio venga contenuto è l’intimidazione, cioè un insieme di forza fisica, morale e politica. Il 7 ottobre il mondo ha visto che Israele era debole, che gli ebrei non erano per nulla forti, che anche nel luogo dove pensavano di essere al riparo li si poteva invadere, massacrare e trattare come bestiame. Gli ebrei erano forti e sono diventati deboli in pochi minuti. Questo ha liberato le forze di odio che fino allora erano state contenute».
I due obblighi per Israele: gli ostaggi e l’eliminazione di Hamas
Un tema poi doloroso è quello degli ostaggi, i cui manifesti sono stati sfregiati e imbrattati in molti Paesi del mondo. «A Parigi è la prima volta che vedo visi lacerati sui manifesti, da persone che non sono delinquenti, ma bravi signori e brave signore. È un inedito nella storia politica occidentale moderna. Ed è un colpo di genio di Hamas perché gli israeliani si sono subito trovati in una trappola tremenda, schiacciati da due obblighi: liberare gli ostaggi, che è un dovere assoluto per un ebreo, e distruggere Hamas, che ha subito promesso di rifare un 7 ottobre e annientare Israele, ed è quindi un obbligo esistenziale per gli israeliani. Per questo motivo, questa è la guerra più difficile che Israele abbia mai dovuto combattere, più tragica di tutte le tragedie vissute da Israele, a causa degli ostaggi. E poi non ci sono solo gli ostaggi israeliani, ci sono anche due milioni di gazawi che sono ostaggio di Hamas, ogni volta che Israele uccide ostaggi di gaza un comunicato di Gaza del Ministero della salute, sono bollettini di vittoria».
Tornando alle vittime palestinesi, Lévy non ha usato mezzi termini. «Ho coperto molte guerre da reporter, ma mai ho visto nella mia vita un esercito che prima di colpire manda un avvertimento, per permettere ai civili di evacuare. L’esercito israeliano lo fa e tutti giorni dalle 2 alle 8 ore dal 7 ottobre apre un corridoio umanitario per permettere al massimo di persone di evacuare il posto dove colpirà. Nessun altro esercito al mondo prende così tante precauzioni per ridurre numero di vittime civili. Certamente ce ne sono, e anche troppe, e questo mi fa stare male, ma fa stare male anche tutti gli israeliani che conosco, sapendo che Hamas impedisce ai Gazawi di evacuare e l’Onu dice loro che non devono andare via, perché è una trappola».
Una costellazione di stati potenti intorno a Hamas
Non poteva mancare una riflessione sulla difficile guerra che Israele sta combattendo contro Hezbollah e Hamas, due emanazioni dell’Iran. «In realtà il quadro è ben peggiore, ed è la grande differenza rispetto alla guerra contro l’Isis e Al Qaeda. Israele è solo, ma soprattutto Hamas non lo è, perché ci sono altri fronti numerosi: Hezbollah, gli Houthi in Yemen, le milizie siriane nel Golan, le milizie sciite che cercano ad infiltrarsi in Giordania attraverso l’Iraq, ma soprattutto intorno a Hamas c’è una costellazione di stati potenti: l’Iran è la piovra, e Hamas uno dei tentacoli, ma poi c’è la Turchia, in teoria alleato dell’Occidente – che a mio avviso da anni dovrebbe essere espulso dalla nato -, e c’è anche la Russia, che prima del 7 ottobre aveva incontrato in Libano gli iraniani, ma dopo quella data è uscita allo scoperto, ricevendo i dirigenti di Hamas a Mosca con tutti gli onori. E poi ci sono stati sunniti come il Qatar, che per mesi ha ospitato ai capi di Hamas. Questo è un cerchio di stati molto potenti, che sono i padrini di Hamas, è una forza immensa: le persone pensano che sia un movimento di resistenza isolato, un’organizzazione di vittime, ma è il centro di un impero».
Per questo, dice Lévy, questa è la guerra più difficile per Israele, che si trova a combattere in un contesto geopolitico estremamente complesso, che non riguarda solo il medio oriente, «perché queste forze che lo sostengono detestano Israele, ma anche gli Usa e l’occidente in generale, e l’Europa. E detestano anche la democrazia e la libertà, anche da loro. Le donne iraniane, i dissidenti russi, gli avvocati turchi imprigionati, gli uiguri cinesi, i blogger del Qatar: tutte queste persone pregano ogni sera che Hamas venga sconfitto e che Israele trionfi, non osano dirlo, ma Israele si batte oggi anche per le donne iraniane, i dissidenti, gli uiguri. Questo è quello che cerco di dimostrare nel libro».
Uno Stato palestinese? Solo se Hamas sarà sconfitto
Sulla soluzione “due popoli, due Stati”, voluta da molti da quando è scoppiata la guerra a gaza, Levy non ha dubbi. «Degli accordi di Oslo non rimane nulle. La direzione palestinese ha distrutto solo, già prima di Hamas, rifiutando tutte le proposte di compromesso fatte da Israele. Ma dal 7 ottobre, anche il più pacifista di Israele, il più convinto che ci vorrà uno stato palestinese, sicuramente rifiuta uno stato palestinese con Hamas o qualcosa di simile, che potrà causare un nuovo 7 ottobre e fino a che c’è Hamas è impossibile pensarlo. Nessun paese al mondo accetterebbe di avere ai propri confini un paese il cui progetto politico è eliminarlo dalla cartina. Per questo la sconfitta militare di Hamas è così importante: perché quel giorno i palestinesi si sveglieranno dall’incubo in cui vivono, come accadde ai tedeschi nel 1945. Si renderanno conto di essere stati ingannati, che non si dà così un futuro. Fino ad allora non si può fare nessun compromesso o negoziato, sarebbe una capitolazione».
Ucraina e Israele, attaccate dagli stessi nemici delle democrazie
Infine, una riflessione sui due conflitti che stanno dominando la scena internazionale: quello fra Russia e Ucraina, dopo l’invasione da parte della prima, e quello in medio oriente, dopo il 7 ottobre. Un conflitto, il primo, che Lévy conosce bene, avendo passato due anni in ucraina come inviato per Repubblica e per realizzare filmati.
«Israele e l’Ucraina hanno esattamente gli stessi nemici – ha dichiarato -. Nei miei due anni lì avevo sulla testa droni iraniani, di fronte le milizie di Kadirov che gridavano ‘allah hu akbar’ e l’esercito russo, cioè la stessa internazionale che colpisce Israele. Nei due casi, in un contesto diverso, la posta in gioco sono la democrazia e la libertà. Israele è una democrazia esemplare, i cui valori continuano anche in tempi di guerra. Mai in vita mia ho visto che nel bel mezzo di una guerra esistenziale ogni sabato sera la metà della popolazione scende in strada per urlare contro il primo ministro e chiederne le dimissioni, e contro l’esercito, di cui andranno a mettere la divisa l’indomani, per fare il proprio dovere con disciplina. Anche l’Ucraina è una democrazia incredibilmente dinamica, che si sta costruendo e che è pronta a sacrifici incredibili per difendere democrazia e libertà. Israele e Ucraina sono due fronti della stessa guerra. Las Russia ha dichiarato guerra all’Europa, l’Iran agli Usa, e poi c’è la Cina che ancora tiepidamente si sta muovendo verso Taiwan, e che potrà sfociare in una guerra. Non è ancora guerra, ma lo sarà si l’Ucraina e Israele perderanno le loro. Se gli Usa un giorno decideranno che Israele e Ucraina devono fare dei compromessi, di fatto risultando sconfitte, la Cina al massimo entro due anni invaderà Taiwan. Il segnale sarebbe la sconfitta dell’ucraina e di Israele. È la stessa storia, che riguarda tutti coloro che hanno a cuore la libertà».