di Sofia Tranchina
7 Ottobre 2023. Israele, il giorno più lungo, l’ultimo libro di Sharon Nizza pubblicato con La Repubblica, è stato presentato e discusso con Yuval Bitton – ex capo dell’Intelligence carceraria e dentista di Yahya Sinwar – e Giusi Fasano – inviata del Corriere della Sera – giovedì 23 gennaio, presso l’Associazione Nazionale Marinai d’Italia.
L’incontro è stato organizzato grazie anche al contributo del presidente della Jerusalem Foundation Ermanno Tedeschi e Marco Paganoni, dell’Associazione Italia Israele.
Sharon Nizza, giornalista freelance milanese che vive in Israele da venti anni, ha trascorso molto tempo a raccogliere racconti e documentazioni di ogni genere degli eventi del sabato nero: telefonate e messaggi delle vittime – ai parenti, alla polizia, al centro nazionale per l’assistenza alle vittime di venti traumatici, alle guardie di sicurezza –, ma anche foto, live facebook, dash cam delle macchine parcheggiate, body cam dei terroristi, interviste ai sopravvissuti e agli ostaggi liberati.
«Volevo scrivere un libro sui grossi cambiamenti tra il 6, il 7 e l’8 ottobre», spiega Nizza, «dalle proteste in piazza contro la riforma giudiziaria voluta dal governo di Netanyahu, al giorno dell’attacco, alle conseguenze il giorno dopo». È stato l’ex direttore di Repubblica Maurizio Molinari a indirizzarla a concentrarsi sul 7 ottobre e «fotografare il momento storico», lo spartiacque tra il prima e il dopo.
Tutti gli eventi che sono seguiti e che hanno scosso il vecchio ordine del Medio Oriente – la sconfitta di Hezbollah, la discesa dei ribelli in Siria e la caduta del regime di Assad, le elezioni in Libano – sono stati conseguenze di quella giornata che ha avuto un effetto domino sulle regioni circostanti.
Yuval Bitton, il medico che salvò la vita a Sinwar
Tra le testimonianze accolte nel suo libro, Sharon Nizza ha intervistato il dr. Yuval Bitton, il medico che – in quasi trent’anni tra il carcere di Nafha e quello di Ketziot – ha trattato detenuti e terroristi, entrando in confidenza con loro e apprendendo le loro dinamiche al punto da essere promosso a comandante della Divisione di Intelligence del Servizio Carcerario Israeliano, ruolo che ha coperto fino al suo ritiro nel 2022.
Tra i suoi pazienti rientra il capo di Hamas Yahya Sinwar, una delle menti dell’attacco del 7 ottobre. Arrestato nel 1988 per la sua attività terroristica e per aver fondato le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, era noto con il soprannome di Macellaio di Khan Yunis per la spietatezza con cui ha torturato e ucciso altri palestinesi (accusandoli falsamente di collaborare con Israele).
Il leader di Hamas era stato condannato all’ergastolo, ma è stato rilasciato nel 2011 come parte dell’accordo che ha portato alla liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit in cambio di 1.027 detenuti palestinesi.
Nel 2004 Bitton diagnosticò a Sinwar un ascesso al cervello salvandogli la vita.
«Quando ti sei iscritto alla facoltà di odontoiatria, hai mai pensato che saresti diventato il medico dei terroristi?» chiedo a Bitton, «E durante il tuo servizio come dentista delle prigioni, ti è mai capitato di pensare “non li voglio più curare i terroristi”?».
«È difficile trattare i responsabili dell’omicidio di centinaia di ebrei, miei fratelli e sorelle. Ma, come medico, era mio dovere curare tutti. E come ebreo e israeliano, condivido questo valore: li curo di giorno, e piango di notte. Il nostro padre fondatore Ben Gurion ha detto chiaramente che dobbiamo attenerci ai valori morali», mi risponde.
Dopo le cure, Sinwar è andato a ringraziare i medici uno ad uno. «Mi avete salvato la vita», ammetteva. «Eccolo il suo ringraziamento, – ricorda amaramente Bitton – organizzare un massacro di israeliani».
Bitton è via via entrato in confidenza con i suoi pazienti detenuti, al punto che, sostiene, saprebbe distinguere la loro appartenenza a un gruppo piuttosto che a un altro dalla loro arcata dentale: quelli di Fatah hanno i denti messi male perché fumano e bevono, mentre quelli di Hamas, più ligi alle regole di vita halal, hanno i denti più puliti. Conoscendo sempre meglio la loro ideologia e il loro carattere, è stato riaddestrato e promosso a capo dell’intelligence carceraria.
È per questo che il 7 ottobre, mentre quasi tutti – compresi la figlia, che lo chiama dal Giappone – erano increduli riguardo alla veridicità di un attacco di Hamas, lui non aveva dubbi: Sinwar gliel’aveva promesso. «Ora siete forti, ma tra 10 o 15 anni forse sarete deboli e io vi attaccherò», gli aveva detto in una delle loro conversazioni, «perché la soluzione dei due stati non è accettabile. Tutta questa terra è terra di Palestina». Per questo, quando nel 2011 il nome di Sinwar era finito nella lista dei prigionieri da liberare in cambio di Gilat Shalit, Bitton si era opposto.
Il 7 ottobre Tamir, il nipote di Bitton, ha imbracciato le armi e difeso per molte ore il kibbutz Nir Oz invaso dai terroristi, che nel frattempo hanno appiccato il fuoco a casa sua per stanare la moglie e i figli o per farli morire soffocati. Quando l’IDF li ha salvati, il piccolo Assaf è uscito a cercare il padre Tamir. A tutti chiedeva «dov’è mio papà? Qualcuno ha visto Tamir?». Ma Tamir è stato ferito e portato in ostaggio a Gaza.
«Mia sorella mi ha chiesto di mandare un messaggio a Sinwar, di chiedergli di lasciare andare Tamir», racconta Bitton. «Era una richiesta ragionevole, perché mi era debitore. Ma sapevo che le cose non sarebbero andate secondo quella logica. Hamas è Hamas, per loro Tamir vale tanto quanto tutti gli altri israeliani rapiti».
Mesi dopo, si seppe che la folla di Gaza, accorsa a vedere gli ostaggi e celebrare la vittoria di Hamas, ha linciato Tamir uccidendolo.
«Il 7 ottobre abbiamo fallito a proteggere i nostri figli, – continua Bitton – ma oggi dobbiamo pagare qualsiasi prezzo per riportarli a casa. Cosa diremo ai Bibas? Che non li abbiamo liberati oggi perché rilasciare prigionieri palestinesi per loro è un rischio troppo alto per la sicurezza di Israele?».
Le principali vittime: i kibbutzim pacifisti
Nel libro di Sharon Nizza viene anche raccontata la sensazione di smarrimento e di tradimento degli israeliani dell’Otef (l’anello di villaggi ebraici più vicini al confine con Gaza). Lì, in kibbutzim comunitari e socialisti, i membri per lo più pacifisti si impegnavano in iniziative come A road to recovery, con cui portavano i gazawi negli ospedali israeliani. Sono stati loro le vittime principali del massacro del 7 ottobre, traditi dai vicini palestinesi che hanno soccorso fino al giorno prima.
Seimila gazawi hanno varcato il confine quel giorno, spiega Nizza: tremilaottocento associati a Hamas, sì, ma duemiladuecento aggregatisi, in particolare dopo l’appello di Muhammed Deif trasmesso alla televisione palestinese, in cui annunciava l’operazione diluvio di Al Aqsa e invitava gli arabi civili a organizzare i loro attacchi con tutti i mezzi a loro disposizione. Molti ostaggi liberati hanno testimoniato che – mentre venivano portati verso Gaza – vedevano gente in abiti civili, in pigiama, in ciabatte, fare il percorso inverso, da Gaza verso Israele, con coltelli o armi di vario tipo.
«Dico alla nostra gente nell’Israele occupato, nel Negev, in Galilea, nel triangolo, Haifa, Jaffa, Acre, Lod e Ramla: incendiate la terra sotto i piedi degli occupanti saccheggiatori. Uccidete, bruciate, distruggete e chiudete le strade. Fate capire agli occupanti codardi che il diluvio di al Aqsa è più grande di quanto pensino. È giunto il giorno in cui chiunque abbia una pistola dovrebbe tirarla fuori. Ora è il momento. Se non hai una pistola, prendi la tua mannaia, ascia, molotov, camion, trattore o macchina», ha detto Deif nel suo discorso.
La reazione della popolazione araba
Un altro tema del libro è la reazione – o assenza di reazione – della popolazione araba musulmana israeliana. Molti di loro sono stati vittime del 7 ottobre. Molti beduini arabo-israeliani sono andati a combattere i gazawi e vendicare i propri fratelli e a difendere la terra d’Israele. E non si è aperto il fronte interno sperato e invocato da Hamas: neppure a Gerusalemme, dove il 40% della popolazione è composto da arabi palestinesi che hanno rifiutato la cittadinanza israeliana (e detengono pertanto tutti i diritti degli israeliani salvo votare alla Knesset), non si sono aperti scontri.
Ma l’operazione di Hamas è stata chiamata Alluvione di Al Aqsa, e Al Aqsa è a Gerusalemme: che la questione sia solo posticipata?
«Un lavoro di prevenzione e di educazione – che coinvolga le ONG impegnate per la pace – può evitare che si arrivi allo scontro finale», spiega Nizza.
Durante le domande di chiusura, una voce nel pubblico ha sollevato la controversia riguardo alla possibilità di morte per ibernazione a Gaza, dove le temperature sono alte anche la notte, e Giusi Fasano, di impeccabile onestà intellettuale, – dopo aver spiegato che a 9 gradi, in condizioni di malnutrizione e debolezza come quelle in cui purtroppo si trovano molti gazawi, una simile temperatura può effettivamente risultare letale – ha invitato il pubblico a non cadere nel gioco della propaganda e del negazionismo, né da un lato né dall’altro.
È fondamentale mantenere un approccio onesto e rispettoso verso tutte le tragedie umane, senza metterle in competizione tra loro: la sofferenza di una parte non invalida quella dell’altra, e un’analisi sugli eventi deve riconoscere la dignità e il dolore di entrambe le parti, con un impegno sincero verso la verità. Solo tenendo conto dell’umanità condivisa è possibile aprire la strada a una comprensione profonda delle sfide da affrontare.
(Foto: ©SofiaTranchina)