di Ilaria Ester Ramazzotti
“Storie di bambini invisibili. Un viaggio dalla Shoah al tempo presente”, l’evento organizzato da Gariwo il 29 gennaio, ha raccolto al Teatro PIME di Milano ottocento studenti e i loro insegnanti, coinvolti e partecipi di una giornata di dialogo e incontro. Si sono alternati voci e approfondimenti dedicati ai bambini, ai minori non accompagnati nei luoghi e nei tempi bui del Novecento: il Genocidio degli armeni, la Shoah, le migrazioni e le guerre in corso oggi.
“Dedicare l’iniziativa di Gariwo per il Giorno delle Memoria a chi ha salvato e si cura di bambini significa riflettere su un male indicibile che costituisce una prova del nostro essere davvero umani – ha comunicato Gariwo -. I minori, la parte più vulnerabile della società, sono infatti le prime vittime dei genocidi, delle guerre, del terrorismo”. Praticare una memoria attiva attraverso l’esempio dei Giusti, una memoria che sostenga l’azione nel presente, conduce a riflettere sulla storia per comprendere meglio l’oggi. In questo i giusti ci portano luce con le loro scelte libere e responsabili, la scelta di reagire al male.
“Sono molto contento di come si è svolto l’evento, a partire dal tema, perché i bambini sono il termometro della società – ha detto a Mosaico Gabriele Nissim, presidente di Gariwo. Credo che la questione della memoria non sia solo una questione di ricordo, di preservazione della memoria, ma di influire sui comportamenti, di insegnare ai giovani come comportarsi e agire nella quotidianità verso gli altri. La memoria deve provocare un effetto. Questo è anche il motivo per cui noi da anni lavoriamo sui Giusti. Attraverso la memoria va insegnata la scelta: nella Shoah c’erano i carnefici, i complici, gli indifferenti e poi c’era chi reagiva. Queste posizioni nascono dagli esseri umani, perché è la persona che può scegliere che cosa fare. Il nostro compito è quindi di insegnare dei comportamenti”.
Gli interventi, le testimonianze e i dialoghi aperti con gli studenti
L’evento ha proposto le testimonianze di Pietro Kuciukian, Console onorario della Repubblica di Armenia in Italia, di Elżbieta Ficowska, salvata da Irena Sendler nel Ghetto di Varsavia, del giovane migrante Salimina Hydara, di Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità di Milano, con l’educatrice Gaia Lauri.
Ha portato i saluti istituzionale il presidente del Consiglio Comunale di Milano Lamberto Bertolè, per il quale “fare memoria significa anche ridare spazio alle singole biografie e vite” e altresì significa essere scomodi, far ‘inciampare’, interrogarci”.
Pietro Kuciukian, co-fondatore di Gariwo, figlio di Ignadios Kuciukian, sopravvissuto al genocidio armeno e emigrato in Italia all’età di 12 anni, è portatore di una storia famigliare, personale e collettiva. È la storia del genocidio messo in atto dalle autorità ottomane, ma anche di un male di fronte al quale ci fu chi scelse liberamente di opporsi, di agire contro, di scegliere altro. A Costantinopoli, la famiglia del padre si salvò grazie a un amico turco che, a proprio rischio, la nascose. Una scelta che riecheggia altri comportamenti di altri luoghi e di altre storie, come nella Shoah. “Fu un atto giusto di un uomo normale, la decisione di scegliere il bene, di far valere i valori della solidarietà, di non considerare l’altro, anche se diverso, un nemico”. Il Giusto è la persona “capace di non farsi contagiare dal male”, fa valere principi di umanità. Fra questi, l’insegnante svizzera Beatrice Rohner, di fronte al genocidio del popolo armeno, che vide come i bambini furono tragicamente coinvolti nel primo genocidio del secolo Novecento, fece la sua scelta: dirigendo temporaneamente un orfanotrofio per bambini armeni ad Aleppo, ne salvò a centinaia portando avanti un’attività clandestina. Riuscì a dare alloggio a 720 bambini, sopravvissuti fra circa 3330 deportati.
Emozionante è stata la testimonianza di Elżbieta Ficowska, detta Bieta, la bambina più piccola salvata da Irena Sendler, l’infermiera onorata nel Giardino dei Giusti dallo Yad Vashem, che nel ghetto di Varsavia salvò 2.500 bambini. Li faceva uscire di nascosto, fornendo loro documenti falsi e trovando chi li accogliesse in casa, attraverso una rete di persone fidate. “Quando avevo sei mesi, per salvarmi, i miei genitori rinunciarono a me e acconsentirono a farmi uscire dal ghetto chiusa dentro una scatola – ha raccontato Elżbieta Ficowska a proposito della sua storia -, e dentro la scatola misero un cucchiaino d’argento con incisi il mio nome e la mia data di nascita”. Adottata, è così sopravvissuta alla Shoah.
“Si parla molto di Shoah e antisemitismo – ha proseguito -, ma ricordiamo che l’Olocausto ha riguardato il popolo ebraico e anche gli zingari”. “Salvarli richiedeva molto coraggio, si rischiava la vita. Ma eroi non si nasce, lo si può diventare. Irene rimpiangeva che ci fossero poche persone eroiche”. “Il mondo non è l’ideale, anche se sono un’ottimista, ma è possibile renderlo migliore. Anni fa, in Polonia, è stata fondata un’associazione per i bambini dell’Olocausto che ha ideato un premio annuale, dedicato a Irena Sendler per gli insegnati che fanno attività per migliorare e ‘riparare il mondo’. “Il messaggio portato dalla narrazione del salvataggio di Elżbieta Ficowska dal ghetto di Varsavia è molto forte – ha evidenziato Gabriele Nissim -. C’è stato poi un ulteriore incontro fra lei e i ragazzi al Giardino dei Giusti”.
Ci sono oggi numerosi bambini vittime della guerra in Siria, dei naufragi nel Mediterraneo. In Europa, in Medio Oriente e in Africa i minori sono un terzo dei rifugiati. Ne ha parlato Salimina Hydara, giovane del Gambia arrivato minorenne a Pozzallo dopo aver attraversato il deserto e il Mediterraneo. Il dialogo, che ha coinvolto Don Virginio Colmegna e Gaia Lauri, educatrice della comunità per minori Casa Francesco, è stato preceduto da un report sull’attività dell’attivista umanitaria italo-eritrea Alganesh Fessaha, fondatrice della ONG Gandhi. “A prescindere dal gruppo etnico, dalla religione, si può collaborare fra persone diverse se l’obiettivo è quello di salvare vite umane, l’amore – aveva detto Fessaha in un’intervista -. I giovani sono il futuro e non devono essere indifferenti. La realtà è crudele, ma se non si affronta è ancora più crudele. I giovani cambieranno il mondo intero e l’indifferenza non li toccherà più”.
“Ho avuto un’infanzia difficile – ha spiegato Salimina Hydara -, non ho potuto conoscere da piccolo mio padre, non ho potuto proseguire negli studi e ho iniziato a lavorare con mia madre”. In seguito a problemi famigliari e difficoltà, si è poi spostato in altri Paesi africani, ma in Burkina Faso viene imprigionato. Dalla Libia è successivamente giunto in Italia imbarcandosi su un barcone. Un racconto che comprende traversie, il ricordo e il segno delle violenze viste, ma anche la volontà di inserirsi in un nuovo Paese, di imparare l’italiano e finalmente di poter studiare. “Diventato maggiorenne, senza un lavoro rischio di essere rimpatriato alla scadenza del permesso di soggiorno” – ha riferito. “Rappresento però tutti i minori che vengono in Italia per salvarsi la vita, e mi auguro che abbiano tutti un futuro migliore”. Esperienze di accoglienza e integrazione sono state poi descritte da Gaia Lauri, per cui “l’obiettivo è rendere autonomi i ragazzi una volta usciti dalla comunità”, nonostante le difficoltà burocratiche legate al diventare maggiorenni dei ragazzi accolti.
“Per affrontare seriamente questo fenomeno migratorio, la cultura è fondamentale – ha sottolineato Don Colmegna -. Non posso non citare la parola ‘indifferenza’ scritta al Memoriale della Shoah, ‘l’estraneità’ a cui ci stiamo abituando. Nella legge istitutiva della Giornata della Memoria non sono nominati né i rom né i sinti. Abbiamo quindi un grande lavoro culturale da fare”. “Arrivano numerosi minori non accompagnati, segnati dalla sofferenza, tante donne incinte, donne violentate”. “Quando si sente dire che dall’Africa arrivano semplicemente dei clandestini da allontanare, dovremmo riscoprire invece un senso della regalità che parte da percorsi culturali. Dobbiamo accogliere gli altri in quanto persone, volti, storie. Entrare in una relazione che non sia solo aiuto, ma condivisione e arricchimento”. Dalla Casa della Carità sono passati volti e storie di 94 Paesi. Abbiamo un immenso patrimonio da conoscere, un patrimonio di umanità”.
Il significato del dialogo e l’ascolto della testimonianza
“È l’empatia che modifica la persona”, il contatto e il dialogo concreto con l’altro, ha detto ancora a Mosaico Gabriele Nissim, in seguito all’evento. Nel processo di trasmissione della memoria “da una parte c’è il bisogno di essere molto razionali nel racconto del fenomeno storico, per esempio della specificità della Shoah, ma dall’altro dobbiamo proprio insegnare dei comportamenti. C’è debolezza nella trasmissione dell’etica, e questo punto è fondamentale: se in passato questo è accaduto, dobbiamo oggi insegnare alla società, al mondo, una nuova etica. Questo è il senso di questa giornata, come anche il presupposto che ci ha portato a costruire la Giornata dei Giusti e i Giardini dei Giusti. Non basta sapere se poi nella vita si fa il contrario: significa che la memoria non ha funzionato. È il messaggio della giornata e il motivo per cui abbiamo deciso di parlare anche dei bambini di oggi.”
Bambini invisibili, non visti, non riconosciuti, soli. Invisibile è l’essere umano non identificato come tale, non visto, non ascoltato, ignorato sulla leva dell’indifferenza. L’invisibilità è stata anche quella del sistema concentrazionario dei lager nazisti e dello sterminio durante la Shoah, quando non si vedeva, non si guardava, non si interveniva, non si sceglieva di reagire al male del mondo. Un’invisibilità proseguita dopo la guerra, nel “non parlarne” come nel ‘’tirarsene fuori”, nel non sentirsi responsabili, sfociata oggi nei rigoli del negazionismo.
L’empatia è allora la chiave per aprire il passaggio della memoria e favorire un’etica di comportamento. “In anni di esperienza nell’organizzare eventi con i giovani – ha continuato Nissim -, direi che i ragazzi comprendono quando ascoltano una storia raccontata da una persona: una cosa è spiegare ai giovani che cos’era il Ghetto di Varsavia, un’altra è sentire parlare una bambina del ghetto che si racconta. Questo è il senso del testimone. Il problema diventa allora la mancanza di testimoni di domani. Ma penso che anche una storia di oggi, se raccontata in un certo modo, possa illuminare il passato”. Attenzione al racconto del dolore, senso dei principi umani e capacità di scegliere secondo etica, diventano così riproducibili in contesti storici differenti.
“I bambini sono il termometro della società – ha ribadito -. Solo agendo per salvare i minori di oggi, rinchiusi in un carcere libico o abbandonati ai confini d’Europa, riusciamo a ricordare con efficacia i bambini della Shoah, vittime innocenti della stessa indifferenza”. Inoltre, “prevenire nel presente la sofferenza dei bambini, cercare di abbattere le barriere emotive e cognitive che condizionano i rapporti affettivi di chi ha vissuto esperienze tragiche, significa tentare di interrompere la catena del male e porre un argine alla transgenerazionalità del dolore – ha scritto Gariwo -. Lo hanno fatto e lo fanno i Giusti. Un esempio per le nostre scelte oggi”.