1967-2017: la difficile metamorfosi di Israele

Israele

di Aldo Baquis

Al di là di quell’inebriante trionfo, che cosa resta della vittoria che segnò una svolta epocale nel destino di Israele? Quale la sua eredità? Quella di un controverso processo di cambiamento. Da quel giorno, politica e società israeliane non saranno mai più come prima. Un’analisi

Ritorno al Muro Occidentale (1967)
Ritorno al Muro Occidentale (1967)

Chi l’ha vissuta, non dimenticherà mai più quella settimana del giugno 1967 quando il giovane Stato d’Israele vedeva gli eserciti dei Paesi arabi prepararsi all’attacco definitivo, quello che, nelle loro intenzioni proclamate, avrebbe dovuto sospingere gli ebrei in mare. La retorica araba raggiunse allora toni molto enfatici. Pareva quasi un ritorno a quel luglio dell’anno 1187 in cui a Hittin (Tiberiade), il Saladino sbaragliò le forze del regno crociato. L’ansia in Israele era comprensibile. Sulla riva di Tel Aviv, nella zona dove oggi si trova l’Hotel Hilton, il rabbinato fece scavare la terra per poter eventualmente dare sepoltura a migliaia di vittime. Sopravvissuti alla Shoah si dotarono di pillole di cianuro che avrebbero ingoiato se i soldati egiziani avessero fatto irruzione nelle loro abitazioni. Poi però, il generale Moshe Dayan – il “sabra” ultimativo, il nuovo ebreo per antonomasia – impartì all’esercito l’ordine in codice Lenzuolo Rosso e gli eventi si misero in moto a un ritmo impressionante. Al termine di quella strepitosa settimana il ranocchio si era trasformato in un principe e il piccolo Stato d’Israele si scopriva una sorta di impero, che si estendeva dal canale di Suez e dall’estremità meridionale del Sinai di Sharm el-Sheik fino al Giordano, includendo l’intera Cisgiordania, e ancora più su fino alle alture del Golan, la biblica terra di Bashan, a breve distanza da Damasco. Gli eserciti arabi erano stati sbaragliati, dispersi ai quattro venti. Di norma, queste cose avvengono solo nelle leggende.

Una vignetta del celebre libro del disegnatore Dosh: la Storia insegue il soldato israeliano che avanza: “Va’ un po’ più piano, non ce la faccio a scrivere tutto!”.
Una vignetta del celebre libro del disegnatore Dosh: la Storia insegue il soldato israeliano che avanza: “Va’ un po’ più piano, non ce la faccio a scrivere tutto!”.

Israele ancora non lo sapeva, ma era una specie di lampada di Aladino. Quando da più parti si gridò al miracolo, da quella lampada uscì allora un genio, ispirato a un profondo sentimento messianico. Un genio che nel mezzo secolo seguente avrebbe messo muscoli e che non avrebbe mai più accettato di tornare supinamente nella lampada. Nelle strade euforiche di Israele, pochi avvertirono nella schiena il formicolio del processo di metamorfosi. Fra questi pochi, il filosofo (ed ebreo osservante) Yeshayahu Leibovitz. Il drammaturgo (laico) Hanoch Levin. E, in certa misura, lo stesso Moshe Dayan, che anche col suo unico occhio ci vedeva abbastanza chiaro.
In realtà nell’immediato dopoguerra non era facile individuare il nuovo indirizzo verso cui Israele si stava incamminando. Di fronte a un mondo arabo stoltamente arroccato dietro ai “tre No di Khartoum” (No a trattative con Israele, No al suo riconoscimento, No alla pace), Israele era un Paese sicuro del fatto suo, pilotato con polso da Golda Meir, affiancata da giovani “sabra” carismatici quali Dayan ed Ezer Weizman e da generali copertisi di gloria nel 1967.
Anni di certezze inflessibili (qualcuno potrebbe azzardare il termine “arroganza”), frantumatisi però nel 1973 con la traumatica guerra del Kippur. Il regime laburista barcollò fortemente, mentre sul terreno si notavano i semi di una grande dicotomia. Prendevano infatti forma le due anime, i due poli opposti della politica israeliana. A sinistra, Shalom Achshav-Peace Now; a destra, i nazional-religiosi del Gush Emunim. Chi avrebbe avuto il sopravvento? La risposta giunse già quattro anni dopo, nel 1977. Trascinato in campagna elettorale dall’irruente Weizman, Menachem Begin (allora malato e sofferente) portò in volata il Likud al potere: dove in buona sostanza sarebbe rimasto – pur con qualche interludio fra i governi di Shamir, Sharon e Netanyahu – fino ai nostri giorni.

Quando soffia il vento di Giudea
Dietro le quinte, la demografia era al lavoro. L’Israele ante-1967 era sostanzialmente laico, egualitario, in buona parte di estrazione askenazita, o sabra. Gli ebrei orientali rappresentavano il 15 per cento. I nazional-religiosi e gli ortodossi erano minoranze trascurabili. Nel 1977, con l’avvento di Begin al potere, vengono alla ribalta la borghesia liberale assieme con le emergenti classi proletarie sefardite e con la élite nazional-religiosa. Dopo il 1967, la sinistra israeliana si sintonizza col maggio francese e con la rivolta nei campus americani. Mentre in Usa Jane Fonda protesta contro il Vietnam, sui muri di Gerusalemme si traccia con lo spray lo slogan: Hal’a ha-kibush, no all’occupazione dei Territori palestinesi. Ispirati da Angela Davis, gli epigoni locali delle Pantere Nere si scontrano con Golda Meir. Con il movimento Peace Now, nel lessico politico entrano parole di sapore antimilitarista. Una sinistra ben diversa da quella dei Padri fondatori: dai balli folkloristici della hora attorno ai falò si balza ai Rolling Stones e ai concerti rock a Ein Fashka, una mini-Woodstock sul mar Morto.
Intanto Begin cambia le carte in tavola. Firma la pace con l’Egitto, cede l’intero Sinai, ma il suo cuore batte forte per la Cisgiordania, che d’ora in poi riprende il nome biblico di Giudea-Samaria. Non la annette formalmente, ma la vuole brulicante di ebrei. Ma i proletari sefarditi che lo hanno votato e portato al potere non sono molto propensi. Allora Begin si rivolge ai nazional-religiosi e per loro è un appuntamento col Destino. Già nel 1967 i loro rabbini avevano teorizzato che la vittoria sugli arabi era da attribuirsi a un portentoso intervento celeste. I tanto ammirati generali di Israele erano mere pedine mosse a loro insaputa da una volontà superiore. Erano in sostanza l’asino del Messia: solo un veicolo, utile per giungere alla meta della salvazione del popolo ebraico. Incoraggiato da Begin, Gush Emunim comincia a mettere radici nella Giudea-Samaria. È un esercito di idealisti, persuasi di rappresentare l’avanguardia militante di una nuova entità, dalla fisionomia più “ebraica” che “israeliana”.
Il corso di questi eventi sembra interrompersi nel 1992 con la elezione di un altro “sabra” famoso, Yitzhak Rabin, alla carica di premier. Rabin coltiva la netta sensazione che quei Territori non siano una ciambella di salvezza per Israele, ma una zavorra. Occorre liberasene, prima che sia troppo tardi. Per gli ebrei nazional-religiosi è pura eresia. Quella politica va contro i piani cosmici di salvazione. Il genio della lampada di Aladino è in agguato e nel novembre 1995 un terrorista ebreo, Igal Amir, abbatte Rabin a pistolettate. Attenzione: pur vicino al movimento dei coloni, Amir è un personaggio più simile a Gavrilo Princip, – l’anarchico individualista che nel 1914 uccise l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo -, che volle in solitaria cambiare il corso della Storia. L’assassinio di Rabin non deve dunque essere attribuito ai nazional religiosi. Ma anch’esso viene interpretato, a posteriori, come un perentorio messaggio in codice del Destino celeste.
Nei collegi rabbinici si insiste sempre più sulla necessità di dar vita a una “leadership ebraica” in alternativa a quella laica “israeliana” che – questa la denuncia – vorrebbe fare di Israele uno “Stato di tutti i cittadini” (arabi inclusi), come fosse una sorta di Danimarca o di Norvegia.
E così, il vento della Giudea torna a spirare impetuoso: non solo sul terreno, ma un po’ alla volta anche nel cinema, a teatro, nei giornali, nelle serie televisive, nella hit-parade musicale.
Nel 2005 le due anime tornano a misurarsi quando un altro “sabra” di spicco, Ariel Sharon, anch’egli laico, ordina il ritiro dalle colonie di Gaza. Ma il genio della lampada non perdona e dopo pochi mesi l’ex generale si troverà ricoverato impotente in ospedale: per un ictus cerebrale, diranno i medici, oppure perché punito dal Cielo per quel “crimine”, secondo i cabbalisti che per neutralizzarlo avevano recitato in un cimitero di Safed la maledizione della Pulsa de Nura. Sharon – che pure era stato il propulsore della colonizzazione! – morirà in ospedale, dopo sette anni trascorsi in un limbo né vivo né morto. “Chi tocca la Terra d’Israele – spiegarono i cabbalisti – paga”.

Le due anime di Israele
Che fine hanno fatto gli eroi di Israele? Dayan riposa nel bucolico cimitero di Nahalal (Galilea). Sharon è sepolto con la moglie Lili su una collinetta antistante il ranch dei Sicomori, nel Neghev. Rabin è a Gerusalemme nel cimitero del Monte Herzl, con la moglie Lea. Il Paese per cui hanno dato la vita ha cambiato volto. La Sinistra è sulla difensiva, ridotta ai minimi termini nella enclave laica sulla costa mediterranea. Peace Now è stato piegato da Gush Emunim. I sefarditi continuano a sostenere il Likud di Netanyahu. Nella Giudea-Samaria risiedono mezzo milione di coloni: i più anziani fra di loro hanno laggiù dato alla luce figli, nipoti e forse anche bisnipoti. Altri 250 mila israeliani vivono a Gerusalemme est. Gli ebrei ortodossi sono stimati in molte centinaia di migliaia. Negli ultimi anni, dirigenti del partito nazional-religioso Focolare ebraico sono impegnati a forgiare secondo standard più “ebraici” il Ministero dell’istruzione e quello della giustizia. A mezzo secolo dalla Guerra dei sei giorni, quando ci si affaccia alla finestra, si vede intorno sempre più Giudea, e sempre meno Israele.