di David Zebuloni
La testimonianza inedita di Sagi Gabay, sopravvissuto alla strage del Nova Festival: «Questa strage passerà alla storia. E io sto realizzando
solo ora di averla vissuta in prima persona»
Sagi Gabay è un caro amico. Ci siamo conosciuti tra i banchi dell’Università negli anni del Master e da allora non ci siamo mai persi di vista. Io ho cominciato a lavorare come giornalista, lui come portavoce di uno dei parlamentari di spicco della Knesset. Proprio una settimana prima della strage di Hamas in Israele, ci eravamo incontrati a Rishon LeZion, città in cui abita Sagi, per bere un caffè insieme, confrontarci professionalmente e, come sempre, per parlare del più e del meno. Questa volta, tuttavia, l’avevo trovato diverso dal solito. «Sono stufo della politica e della Knesset, sono stufo dell’aria che tira in Israele, ho bisogno di prendermi una boccata d’aria, vorrei farmi un anno fuori, lavorare forse a Londra, Berlino o Milano», mi aveva confessato, chiedendomi se conoscessi qualche opportunità lavorativa nella città in cui sono nato e cresciuto. Ci eravamo salutati con la promessa di rincontrarci presto, e la mia promessa di aiutarlo a evadere per un anno dalla Knesset.
La sera del 7 ottobre, quando l’attacco di Hamas era ancora in corso e l’incertezza regnava sovrana, Sagi aveva pubblicato un post su Instagram. “Sono vivo per miracolo, sono a casa, grazie a chi ha pregato per me”, aveva scritto. Era appena finito Shabbat, avevo appena acceso il cellulare e non avevo ancora chiara la situazione. “Cosa ti è successo?”, gli ho scritto immediatamente. Lui mi ha raccontato di essere sopravvissuto al Nova Festival a Reim, dove 260 ragazzi e ragazze sono stati assassinati brutalmente. Mi ha anche detto di essere ancora scosso e mi ha invitato a chiamarlo l’indomani. La conversazione che segue è un estratto della dolorosa chiamata realizzata con Sagi.
«Alle 6.30 ero con degli amici nel parcheggio fuori dalla festa, eravamo usciti un attimo a bere. Guardando il cielo, ho pensato che quella fosse una delle albe più belle che io avessi mai visto. Poi ho visto delle strani luci illuminare il cielo – ricorda Sagi. – Per un attimo non ho capito, poi ho capito: erano decine di missili che venivano intercettati sopra le nostre teste. Abbiamo immediatamente realizzato che la festa era finita e intuito che all’uscita ci sarebbe stato del caos. Ancora non immaginavamo che potesse accadere ciò che poi è accaduto, ma l’atmosfera era davvero sinistra. Abbiamo dunque deciso di andare via, di non rientrare più.
Io ero in macchina, avevo una brutta sensazione, volevo solo volare via di lì. Osservando le guardie di sicurezza all’uscita, mi sono reso conto che non avessero idea di cosa fare. Erano smarriti come me».
Prende una piccola pausa, poi continua. «Ho guidato per mezzo minuto, finché non ho visto una folla correre nella direzione opposta alla mia, per ripararsi ai lati della strada. Ho fermato la macchina e mi sono unito a loro. Poi, qualche istante dopo, mentre ero sdraiato per terra insieme agli altri, ho realizzato che stavo sbagliando, che non aveva senso ciò che stavo facendo. Sono dunque tornato in macchina, nel tentativo di allontanarmi quanto più possibile. Le mie intuizioni erano giuste. Ho scoperto successivamente che un terrorista aveva lanciato una granata proprio dov’ero nascosto io. Cinquanta ragazzi sono rimasti uccisi. Se fossi rimasto lì, quella sarebbe stata la mia fine. Ma intanto ero tornato in macchina. Ho guidato nella direzione opposta al flusso della folla per 500 metri, fino a quando mi sono imbattuto in una barriera di macchine: erano altri ragazzi che, come me, cercavano di scappare. Non credevo ai miei occhi. Il passaggio era bloccato, intorno a me decine di ragazzi sanguinanti zoppicavano verso ignota destinazione. Sono sceso di nuovo dalla macchina e ho cominciato a correre. Prima per la strada e poi nei campi. Sentivo gli spari, le urla, le esplosioni».
Sagi sembra rivivere quegli attimi. «Eravamo circa in 400 a correre: letteralmente, un esodo. Abbiamo camminato e corso per circa 20 chilometri. Mi ero preso una brutta storta, solo dopo ho scoperto di essermi slogato la caviglia. L’adrenalina era a mille, i terroristi ci inseguivano. Il telefono non smetteva di squillare: famigliari e amici cercavano di contattarmi, volevano sapere come stessi, se fossi vivo, eppure non mi sono mai sentito così solo in vita mia – confessa. – Dopo circa tre ore abbiamo visto per la prima volta dei veicoli israeliani. Venivano a dirci che stavamo marciando nella direzione giusta, che dovevamo continuare a camminare e che loro stavano andando a soccorrere chi era rimasto indietro. Dopo quattro ore siamo arrivati a destinazione: una piccola cittadina, dove ci hanno accolto con dell’acqua e del cibo. Ci sentivamo profughi di guerra. Dopo un’ora, quando ancora eravamo tesi e confusi, ma cominciavamo a capire l’entità della strage scampata, siamo saliti su un autobus per Be’er Sheva. Da lì, direttamente a casa».
Un attimo prima di concludere la telefonata, domando a Sagi se tornerà ad essere la persona che era prima della tragedia. Il ragazzo sorridente che ho conosciuto anni prima all’Università. Se riuscirà a guarire dalle cicatrici visibili e invisibili.
«Non lo so -, risponde lui con un filo di voce. – Questa è una strage che passerà alla storia e io sto realizzando solo ora di averla vissuta in prima persona. Tutto il Paese parla di noi, sembra conoscere ogni dettaglio di ciò che è accaduto, e io non ci sto capendo ancora nulla. Devo elaborare il lutto, la perdita dei miei amici rimasti lì, uccisi o dispersi. Per ora sono solo felice del miracolo di essere ancora vivo».